Da settimane, ormai, è partita la ricerca del vaccino contro il COVID-19, il virus emergenza mondiale che in Italia ha infettato quasi 8mila persone e causato la morte di oltre quattrocento. Decine i laboratori, pubblici e privati, in attività costante per elaborare una soluzione efficace a prevenire il contagio e contrastare l’epidemia. Tra gli ultimi di cui si ha notizia, l’Istituto israeliano Migal, che dichiara di esserci vicino: sarebbe un sottoprodotto dello sviluppo di un vaccino contro l’Ibv (virus della bronchite infettiva, una malattia che colpisce il pollame), come riporta La Stampa. Molti centri di ricerca in tutto il mondo (tra cui uno italiano, l’Advent Srl, divisione dell’Irbm Spa di Pomezia) hanno iniziato ad individuare potenziali soluzioni attraverso approcci diversi. Rino Rappuoli, uno dei massimi esperti in materia e direttore scientifico di Gsk vaccini, ha detto che le prime sperimentazioni sull’uomo potrebbero partire nel giro di qualche settimana.
Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, spiega a Linkiesta come i modelli di sviluppo più veloci e affidabili disponibili al momento siano quelli «che utilizzano un fattore virale: un virus innocuo per l’uomo che possa “infettare” le cellule facendo produrre una proteina specifica del virus da cui ci si vuole difendere; una proteina che stimola la produzione degli anticorpi contro il virus da cui proteggersi». «Ci sono poi altre strategie che non impiegano virus innocui», prosegue l’esperto, «comunque il principio è lo stesso. È un approccio simile a quello tenuto sinora per il vaccino contro Ebola».
Una procedura simile a quella a fattore virale è anche quella utilizzata per i vaccini cosiddetti “a Rna”, con la differenza che il gene sintetico che deve produrre la proteina, invece di essere messo all’interno di un vettore virale, si inietta direttamente nelle cellule in una speciale formulazione. Quale che sia la combinazione più efficace, però, i tempi rimangono lunghi, e sarà necessario almeno un anno prima di poter arrivare alla commercializzazione di un qualsiasi prodotto. Proprio perché le procedure scientifiche richiedono che i test vengano svolti «prima su modelli animali e poi nell’uomo», puntualizza l’esperto. Ma non solo. Il grosso limite alla ricerca è che lo sviluppo dei vaccini ha costi altissimi. E se in Italia «abbiamo competenze anche uniche a livello internazionale, purtroppo le risorse non sono sufficienti», ammette Bonati.
Basti pensare che la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), con sede in Norvegia, pur avendo aumentato il suo budget per le borse di studio a oltre 19 milioni di dollari, non potrebbe arrivare a coprire in maniera sostanziale uno sforzo mondiale: è lo stesso dirigente dei programmi e delle tecnologie innovative, Nick Jackson, a dire che per portare anche solo tre diversi vaccini fino alla fase finale dei test clinici servirebbero circa 2 miliardi di dollari, come riporta il New Yorker.
I tempi si potrebbero accorciare, per esempio, facendo sì che «i risultati ottenuti nelle varie fasi della sperimentazione fossero disponibili a tutti così da sfruttare le indicazioni dettate dai risultati positivi ottenuti», dice Bonati. Ma il punto rimane: «le regole della proprietà, anche quella intellettuale, andrebbero messe in secondo piano», dichiara l’esperto. In altre parole, i risultati dei vari step per la produzione del vaccino e per la definizione e miglioramento dell’efficacia dovrebbero essere resi disponibili in modo trasparente e rapido. Una condivisione «difficile da realizzare, ma se concordata in anticipo, trattandosi di un’emergenza di tale portata, potremmo riuscirci». Il motivo è che lo sviluppo di nuovi vaccini è quasi totalmente in capo a poche industrie multinazionali, c’è dunque il rischio che una potenziale soluzione possa finire per essere commercializzata a costi esorbitanti.
Ciò detto, in attesa che i primi test possano effettivamente partire, per evitare che l’epidemia dilaghi il monitoraggio dovrà essere continuo e prolungato nel tempo, spiega Bonati. «Questo per comprendere il fenomeno a cui si è stati esposti, anche in termini di effetti a distanza, e attuare iniziative preventive per il futuro».
Anche rispettando tutte queste condizioni, non è nemmeno detto che, alla fine, una soluzione si trovi nei laboratori. «Non per tutte le infezioni, anche gravi, disponiamo di un vaccino», puntualizza Bonati. Perciò, le uniche armi a disposizione delle persone contro il virus ad oggi rimangono quelle che continuiamo a ripeterci: lavarsi spesso e bene le mani, tossire proteggendosi (fazzoletti di carta, incavo del braccio), non toccarsi occhi e bocca con mani non lavate, areare le stanze, mantenere le distanze nelle comuni relazioni, pulire strumenti di uso comune prima di afferrarli con le mani. Evitare, inoltre, di usare antibiotici: «Non sono efficaci per combattere i virus ma i batteri», dice l’esperto, e farmaci antivirali. «Poco e ovvio? Forse», conclude Bonati, «ma già essenziale per vivere tutti meglio».