La sua foto in ginocchio davanti a Giovanni Paolo II, che lo rimprovera aspramente, il 4 febbraio 1983, all’aeroporto di Managua, ha fatto il giro del mondo. Ma la fama del sacerdote Ernesto Cardenal Martínez, deceduto il 1° marzo all’età di 95 anni, è legata a ben altro ed è destinata a sopravvivergli al di là della morte.
Con lui se ne va il più grande poeta latinoamericano tra la seconda metà del XX° secolo e il primo ventennio del XXI, considerato il fondatore dello stile scientifico. «Penso di essere l’unico poeta, o almeno l’unico che conosco, che sta facendo poesie sulla scienza, poesia scientifica – così in un’intervista al El País –. Per me è quasi come una preghiera leggere libri scientifici. Vedo in essi ciò che alcuni chiamano tracce della creazione di Dio».
Non per nulla il vincitore di riconoscimenti internazionali – tra cui il prestigioso Premio Iberoamericano de Poesía Reina Sofía (2012) nel ricevere il quale disse: «Sono stato poeta, sacerdote e rivoluzionario» – aveva pubblicato, a partire dalla fine degli anni ’80, Cantíco cosmico, El telescopio en la noche oscura, Versos de pluriverso, El celular y otros poemas. Fino all’ultimo “libro-poema” Hijos de las estrellas del 2019, in cui, dando prova di un personale stile solare e diafano, lontano oramai dalle iniziali influenze di Rubén Darío, Pablo Neruda, Rafael Alberti Federico García Lorca, Ezra Pound, emerge una visione epicamente theilardiana dell’uomo e del cosmo.
Poeta, sacerdote e rivoluzionario. È stato appunto questo Ernesto Cardenal e non lo si capirebbe appieno se si eliminasse uno solo di questi tre aspetti tra loro intimamente connessi nella sua vita. Perché, utilizzando la massima di Pio XI, in lui davvero simul stabunt vel simul cadent.
Nato il 20 gennaio 1925 a Granada da una delle più ragguardevoli famiglie nicaraguensi, Ernesto Cardenal agli studi giuridici, come avrebbero desiderato i suoi genitori, preferì quelli letterari, che compì dal 1942 al 1946 presso la Università nazionale del Messico a Città del Messico. Nel 1947-1949 proseguì gli studi a New York presso la Columbia University, dove scoprì la poesia nordamericana e si accostò ammirato alle opere di Ezra Pound, che tradusse in spagnolo. Dopo un viaggio di quasi due anni tra Francia, Spagna, Svizzera e Italia, rientrò in patria nel luglio 1950, dove iniziò a scrivere i suoi primi versi sotto la guida del poeta nicaraguense José Coronel Urtecho e aderì al Frente Sandinista de Liberación Nacional (Fsln). Partecipò così nel 1954 alla fallita Rivoluzione d’aprile contro il regime dittatoriale di Anastasio Somoza García.
Nel 1957, al culmine di quella che avrebbe definito una «vita dissipata» e sull’esempio del fratello Fernando divenuto gesuita, entrò nell’abbazia trappista statunitense di Nostra Signora di Gethsemani, dove conobbe ed ebbe quale maestro dei novizi Thomas Merton. Abbandonata due anni dopo la Trappa per motivi di salute, continuò gli studi di teologia presso l’abbazia benedettina di Cuernavaca ma mantenne un rapporto strettissimo col monaco-poeta-mistico di Gethsemani fino alla di lui morte. Ordinato sacerdote a Managua nel 1965, fondò, proprio con Merton, una piccola comunità contemplativa sull’isola Mancarrón dell’arcipelago Solentiname nel lago Cobicolba (il Gran Lago di Nicaragua). In essa fu incoraggiato lo sviluppo delle cooperative, fu avviata una scuola di pittura primitivista, fu condotto un lavoro di sensibilizzazione alle istanze dei campesinos sulla base del Vangelo interpretato in ottica rivoluzionaria e poi condensato nella celebre opera cardenaliana El Evangelio de Solentiname (1975).
Solentiname divenne sin dalla fondazione un rifugio per i partigiani che lottavano contro la sanguinaria dittatura dinastica dei Somoza. Ma fu anche il luogo in cui Cardenal portò a maturazione la sua teologia della liberazione, della cui corrente sarebbe stata una delle figure chiave.
I prodromi di tale visione teologica possono già ravvisarsi nei suoi Salmos del 1964 e nell’Oración por Marilyn Monroe y otros poemas del 1965. Risale invece al 1956 il poema politico Hora 0, che, musicato nel 1977 dai Pancasán, sarebbe diventato l’inno della Rivoluzione sandinista.
Dopo un viaggio in Cile nel 1971, caratterizzato dagli incontri col presidente Salvador Allende, soggiornò successivamente a Cuba, dove fu in rapporto amicale col Líder Maximo, cui dedicò nel 1974 Fidel Castro: cristianismo y revolución.
Il 1977 fu un anno cruciale per Ernesto Cardenal: a seguito di un attentato al quartier generale della Guardia Nacional, comandata dal presidente e dittatore Anastasio Somoza Debayle, i miliziani fecero irruzione nella comunità di Solentiname e vi appiccarono un incendio. Il sacerdote fuggì in Costa Rica, rientrando in patria per partecipare alla Rivoluzione del ’79, che il 19 luglio rovesciò il regime e pose fine a quasi 40 anni di dittatura dinastica Somocista.
Ernesto fu nominato ministro della Cultura (carica che mantenne fino al 1987) nel primo governo sandinista, guidato da Daniel Ortega, mentre il fratello Fernando fu titolare del dicastero dell’Educazione.
In tale veste ricevette con gli altri componenti della Giunta di Governo Giovanni Paolo II, atterrato all’aeroporto di Managua il 4 marzo 1983. Wojtyła non permise a Cardenal, che si era tolto l’inseparabile basco e gli si era inginocchiato davanti, di baciargli la mano. Anziché benedirlo, gli puntò contro l’indice destro e lo ammonì aspramente: «Prima devi riconciliarti con la Chiesa». Lo accusò quindi di propagare dottrine apostate e di far parte del Governo sandinista.
La reazione di Ernesto Cardenal si ebbe poco dopo nella cattedrale di Managua, quando durante la visita di Giovanni Paolo II, alzò il pugno destro gridando: «Que viva la Revolución!».
Il 30 gennaio successivo sarebbe stato sospeso a divinis su decreto del card. Silvio Oddi, prefetto della Congregazione per il Clero. Ernesto Cardenal dovette aspettare 35 anni per essere riabilitato e assolto da tutte le censure canoniche. Il 17 febbraio 2019 il nunzio apostolico Waldemar St. Sommertag comunicò al sacerdote 94enne, ricoverato presso l’ospedale di Managua, la decisione di Papa Francesco e concelebrò la prima Messa con lui.
Di Bergoglio Cardenal parlò entusiasticamente in un’intervista a El País del 21 aprile scorso: «È una meraviglia, un miracolo di Dio. Non si comporta come un papa: sta facendo una rivoluzione nella Chiesa e in Vaticano». Durissimo invece contro la deriva autoritaria di Daniel Ortega, che, tornato al potere nel 2007, è da allora ininterrottamente presidente del Nicaragua.
A dispetto dei tre giorni di lutto nazionale, proclamati dal Capo di Stato, non sono cadute nel dimenticatoio le ripetute condanne di Cardenal nei riguardi di quella che lui bollò come nuova dittatura familista in Nicaragua. Come non è stato dimenticato l’atto di protesta che il poeta, sacerdote e rivoluzionario fece il 16 dicembre 2018, quando, accettando il Premio internazionale Mario Benedetti, lo dedicò al popolo nicaraguense e al 15enne Álvaro Conrado, una delle prime vittime della repressione orteghista, che a oggi ha fatto 328 vittime, migliaia di dispersi e quasi 800 detenuti.
Il più bell’epitafio al sacerdote, poeta e rivoluzionario nicaraguense, che sarà sepolto sabato presso la comunità di Solentiname, lo ha innalzato il vescovo ausiliare di Managua Silvio José Báez: «Addio all’amico Ernesto Cardenal, che ora può cantare il suo Salmo 15 davanti a Dio: Non c’è gioia fuori di te. Io non rendo culto alle star del cinema né ai leader politici e non adoro i dittatori».