Uno dei pochi svaghi rimasti nel confino milanese, dopo la chiusura dei parchi e i minuti contati per le pipì del cane, è riordinare la libreria di casa. Ed è così che mi sono imbattuto in uno degli scrittori che più amavo da ragazzo: Dino Buzzati. Quale miglior vaccino contro l’angoscia, se non per l’appunto un grande maestro dell’angoscia? E poi, la Milano spettrale di questi giorni non evoca le atmosfere del Deserto dei tartari? Perfettamente intonato al contesto è anche il Buzzati disegnatore e fumettista, quelle piazze oniriche senza traccia di presenze umane, semmai occupate da giganteschi cagnoni dallo sguardo enigmatico (chi li ha portati lì si sarà munito di autocertificazione?), o il Duomo trasfigurato in un massiccio dolomitico, con le sue guglie e le sue cime, ma nemmeno l’ombra di un alpinista. L’angoscia buzzatiana ha in genere poco a che fare con i virus e le epidemie. Rispecchia per lo più lo Zeitgeist del dopoguerra, la cupezza della metropoli industriale, il perbenismo soffocante della borghesia, le gesta della mala, la repressione sessuale e le ossessioni erotiche, la paranoia della minaccia comunista.
C’è un racconto in particolare, uscito nel 1949 sulla mitica terza pagina del Corriere, e poi pubblicato cinque anni dopo nella raccolta Il crollo della Baliverna (ora Oscar Mondadori, 2018), che riletto adesso ti fa drizzare i capelli in testa. Si intitola “Qualcosa era successo” e racconta un viaggio in treno dal Sud Italia verso Milano. Non un Frecciarossa, ma uno di quei treni di lusso di una volta, che ci mettevano un giorno intero a risalire la penisola, tagliandoti fuori dal mondo nel tuo scompartimento, senza cellulari né altri mezzi di comunicazione. Tutto inizia a un passaggio a livello: il protagonista vede dal finestrino una donna che aspetta di attraversare. «Si era evidentemente appoggiata alla sbarra per godersi la vista del nostro treno, superdirettissimo, espresso del nord, simbolo per quelle popolazioni incolte, di miliardi, vita facile, avventurieri, splendide valige di cuoio, celebrità, dive cinematografiche, una volta al giorno questo meraviglioso spettacolo, e assolutamente gratuito per giunta. Ma come il treno le passò davanti lei non guardò dalla nostra parte (eppure era là ad aspettare forse da un’ora) bensì teneva la testa voltata indietro badando a un uomo che arrivava di corsa dal fondo della via e urlava qualcosa che noi naturalmente non potemmo udire: come se accorresse a precipizio per avvertire la donna di un pericolo. Ma fu un attimo: la scena volò via, ed ecco io mi chiedevo quale affanno potesse essere giunto, per mezzo di quell’uomo, alla ragazza venuta a contemplarci».
Il viaggio prosegue e fuori dal finestrino scorrono come in un film scene sempre più allarmanti, contadini che gridano con le mani intorno alla bocca, gruppi di persone che scappano in mezzo ai prati, e poi quello che appare ormai, ai passeggeri sbigottiti, un vero e proprio esodo di massa: «Le strade formicolavano di veicoli e gente, tutti in cammino verso il sud. Rigurgitanti i treni che ci venivano incontro. Pieni di stupore gli sguardi di coloro che da terra ci vedevano passare, volando con tanta fretta al settentrione. E zeppe le stazioni. Qualcuno ci faceva cenno, altri ci urlavano delle frasi di cui si percepivano soltanto le vocali come echi di montagna”. A una fermata, il protagonista riesce a strappare un giornale dalle mani di uno strillone. Anzi, solo un brandello di giornale, giusto la coda del titolo di prima pagina: “IONE”, a caratteri cubitali. Rivoluzione? Inondazione? Esplosione? E il dubbio non fa che attizzare l’ansia.
Fino all’arrivo a Milano, in una Stazione Centrale desolatamente vuota: «Corremmo giù per i marciapiedi, verso l’uscita, alla caccia di qualche nostro simile. Mi parve di intravedere, nell’angolo a destra in fondo, un po’ in penombra, un ferroviere col suo berrettuccio che si eclissava da una porta, come terrorizzato. Che cosa era successo? In città non avremmo più trovato un’anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. “Aiuto! Aiuto!” urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati». Sembra un quadro di Munch. È l’incubo di un’Italia da poco uscita dalla guerra, dal fascismo, dall’occupazione tedesca e dai bombardamenti, e che teme di ripiombare un’altra volta nel caos e nella dittatura. Ma potrebbe anche essere un’immagine della nostra quarantena di massa, della fuga dalla città, dell’assalto ai treni diretti in Puglia o in Sicilia. Di un tempo allucinante in cui se un titolo di prima pagina finisce per “IONE” è di sicuro INFEZIONE.
Buzzati, peraltro, era anche un ipocondriaco che viveva nel terrore delle malattie e della morte, tanto che in un suo racconto, Sette piani, poi diventato un fortunato film di Tognazzi (Il fischio al naso), mette in scena l’odissea tragicomica di un paziente ricoverato per una sindrome di lieve entità all’ultimo piano di un moderno ospedale e poi trasferito con le scuse più fantasiose da un piano all’altro, giù giù fino al pianterreno destinato ai malati terminali. A questo filone “medico” si può ricollegare anche un altro racconto, Una cosa che comincia per elle (è nel Meridiano Mondadori del 1975 a cura di Giuliano Gramigna), ambientato nell’immaginario paese di Sisto – forse in Lombardia, forse durante la dominazione spagnola.
Cristoforo Schroder, mercante di legnami, appena arrivato nel villaggio e sceso alla solita locanda, manda a chiamare il medico dottor Lugosi (già il nome è poco rassicurante, ricorda un famoso attore di film horror), perché si sente poco bene. Il dottore lo visita, esclude che ci siano cose gravi e si fa dare una bottiglietta di orina. Ma se ne va con un’aria perplessa. Il mattino successivo Lugosi torna a bussare. «Sto benone» risponde Schroder, e fa per mandarlo via. Ma il dottore non schioda: è venuto accompagnato da un certo don Valerio Melito, che se ne sta sulla soglia, come a voler mantenere una distanza di sicurezza, e prescrive al paziente un salasso.
Mentre Schroder sta seduto sul letto, con le sanguisughe ai polsi, i due cominciano una specie di interrogatorio. Parlano di un incidente capitato al mercante tre mesi prima. La sua “carrozzella” era uscita di strada, e il cavallo non riusciva a rimetterla in carreggiata. Pioveva a dirotto, e non c’era nessuno a dare una mano, tranne un misterioso «uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro». E una specie di campanella che continuava a suonare. Pareva un sordomuto, faceva fatica a esprimersi, e Schroder aveva dovuto prenderlo per un braccio per farsi aiutare a spingere. Chi era quell’uomo? «Non so, uno zingaro, un vagabondo», dice il mercante. «No», lo fredda don Melito: «Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle».
Schroder è sempre più confuso, prova a indovinare: un ladro? Un lanzichenecco? Macché, un lebbroso era. «E adesso lo siete anche voi», dice Don Melito, che si qualifica come l’alcade, il magistrato del paese. Gli butta ai piedi un pacchetto che fa un suono metallico. È una campanella: se la dovrà mettere al collo, per poi abbandonare subito il paese e i confini del regno. Senza carrozza, senza cavallo, senza niente.
Le sue robe dovranno essere bruciate. «Fuori immediatamente, cane, grida l’alcade. E il mercante lebbroso, con passi da infermo», scende le scale ed esce dalla locanda: «Decine e decine di persone facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva». Den, den: non vi suona familiare? È la perfetta colonna sonora dell’emergenza che stiamo vivendo, con l’isolamento, la psicosi del contagio, il distanziamento sociale. In un certo senso, ognuno di noi è diventato un lebbroso per quelli che incontra, e gli altri lo sono per lui. Avremmo bisogno di campanelle, ma hanno fatto incetta i primi giorni, e non se ne trovano più.