Una notizia incoraggiante è arrivata nelle ultime ore dall’ospedale Cotugno di Napoli, dove due pazienti affetti da una grave polmonite causata dal coronavirus – uno dei due è in rianimazione – sono stati trattati con Tocilizumab, un farmaco usato nella cura dell’artrite reumatoide. Era già stato utilizzato in Cina su 21 pazienti e per la prima volta è stato somministrato in Italia per i casi di coronavirus (il suo utilizzo è stato approvato dalla Commissione sanitaria nazionale cinese nelle sue nuove linee guida di trattamento di Covid-19).
«Si tratta di un farmaco che agisce bloccando i recettori dell’interleuchina 6 (IL-6), una sostanza che viene prodotta nel processo infiammatorio a livello polmonare, e migliora la polmonite», ha spiegato Vincenzo Montesarchio, direttore della Uoc di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera dei Colli. «Quindi non stiamo curando il coronavirus, stiamo cercando di bloccare l’azione del mediatore dell’IL-6 sulla cascata di infiammazione a livello polmonare». Il Tocilizumab viene somministrato una sola volta. Ai due pazienti è stato dato sabato scorso e già si notano dei miglioramenti: «Lo scopo del trattamento è togliere il paziente dalla rianimazione».
Al di fuori dei casi con il quadro clinico più severo, però, il trattamento segue un altro percorso. Come spiega il direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi di Milano Fabrizio Pregliasco, «si fanno prima le dovute procedure per tracciare i casi. Quindi si passa all’individuazione della possibile patologia ed esecuzione del tampone». Poi dipende dal paziente: se la condizione clinica lo consente e i sintomi sono lievi, l’obiettivo è riportarlo a casa in quella che viene definita una “quarantena fiduciaria”, per curare l’influenza. Solo nei casi più gravi, soprattutto quando c’è difficoltà respiratoria, si procede con il ricovero e si fa approfondimento diagnostico. Può prevedere la risonanza o la TAC ed evidenzia in modo preciso la polmonite interstiziale.
Ma di solito il trattamento del paziente è «sintomatologico», prevede soprattutto una combinazione di farmaci antivirali e antiretrovirali. «Si fa un uso che noi definiamo “compassionevole” (cioè: non è ancora stata completata la fase di sperimentazione clinica per quell’utilizzo, ndr), di farmaci antivirali come l’Oseltamivir, un antinfluenzale – spiega il direttore Pregliasco – oppure di Idrossiclorochina, un farmaco antimalarico, che si è scoperto avere un’azione antivirale anche per altri virus. E il Remdesivir».
Il Remdesivir è un antivirale di recente introduzione, sviluppato negli anni delle epidemie causate da ebola in Africa tra il 2013 e il 2016 dalla società farmaceutica americana Gilead Sciences. Il Remdesivir ha mostrato un valido effetto contro il Covid-19 perché impedisce al virus di moltiplicarsi. Una delle prime notizie sulla sua efficacia contro il nuovo coronavirus è arrivata a inizio febbraio da un ospedale dello Stato di Washington: il giorno successivo alla somministrazione il paziente si è sentito meglio, e dopo quattro non aveva più la febbre (la sperimentazione è stata riportata in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine).
Nella fretta di iniziare studi clinici su un potenziale trattamento del Redemsivir, l’azienda avrebbe violato la legge federale degli Stati Uniti per non aver atteso l’approvazione per l’esportazione di farmaci. Non si tratta di qualche carta firmata approssimativamente, ma di una violazione di norme e protocolli che servono ad assicurare che gli studi clinici siano svolti nel migliore dei modi, e che allungano naturalmente i tempi. In particolare, lo scorso 3 febbraio Gilead avrebbe spedito un lotto di Remdesivir in Cina dopo aver richiesto, ma non ricevuto, l’approvazione federale dal Dipartimento della salute e dei servizi umani (HSS) come previsto dalla legge – creando più di qualche disappunto nell’amministrazione Trump. Va ricordato che in quei giorni le compagnie aeree erano in fermento e stavano rapidamente chiudendo tutti i collegamenti con la Cina, facendo credere alla compagnia di doversi sbrigare. O almeno questa è stata la spiegazione fornita da Gilead al giornale digitale Axios.
Niente può far pensare che l’azienda sia in qualche modo autorizzata a violare i protocolli ma, come spiegato dai suoi rappresentanti: «Ci siamo mossi rapidamente e nel rispetto della legge per fornire il farmaco in modo che possa essere testato in Cina, perché quello all’epoca era l’unico paese con casi confermati sufficienti per condurre studi clinici sul Remdesivir». Un portavoce dell’HHS a risposto dichiarando che «il Dipartimento non si è opposto all’invio del lotto in Cina allo scopo di condurre studi clinici. Ma volevamo garantire che le sperimentazioni cliniche in Cina fossero organizzate in modo da produrre dati utili anche agli Stati Uniti e a tutto il mondo in modo da produrre il giusto farmaco per contrastare adeguatamente Covid-19».
Perché ancora non c’è un vaccino. L’azienda farmaceutica statunitense Moderna, dice di aver sviluppato un primo vaccino sperimentale contro il SARS-CoV-2. Ma prima di verificarne efficacia e sicurezza occorre fare delle sperimentazioni: i primi risultati dovrebbero arrivare nel giro di pochi mesi, e se saranno positivi si procederà con un secondo test che coinvolgerà centinaia di persone. Da lì inizieranno le verifiche delle autorità per la sicurezza dei farmaci, in vista di una diffusione su scala mondiale del vaccino.
Lo ha spiegato anche il direttore Pregliasco: «Non si dà un vaccino a milioni di persone prima di aver verificato che sia efficace e non abbia effetti tossici. Poi si dovrebbe avviare la produzione in una quantità tale da soddisfare la richiesta di tutto il mondo, data l’estensione del contagio. Non credo che si possa pensare di averlo velocemente perché esistono limiti tecnici obiettivi. In situazioni normali ci vorrebbero otto anni, qui si velocizzerebbe tutto, ma meno di uno o due anni sembra inverosimile». Nel frattempo ognuno deve fare la sua parte: «Le misure individuali di limitazione dei contatti sociali sono fondamentali per poter contrastare il virus, ci affidiamo al senso di responsabilità. Vero che il comportamento dei singoli non è facile da regolare, ma in questo momento dobbiamo ridurre gli spostamenti e rimanere dove siamo».