Nessun pasto è gratisL’Italia ha bisogno di sforare il deficit per il coronavirus, ma nessuno ci farà beneficenza

Se il governo pensa che gli imprenditori e famiglie presteranno generosamente i soldi per assumere con golosi incentivi i medici e gli infermieri che ha anticipatamente pensionato con quota cento, ha sbagliato i conti

TIZIANA FABI / AFP

La strategia anti-coronavirus dell’esecutivo è super-precauzionale. Lo stesso comitato tecnico chiamato a validare la misura simbolicamente più rappresentativa e mediaticamente più “contagiosa”, cioè la chiusura delle scuole fino al 15 marzo, ha espresso dubbi sull’utilità dell’intervento. Nulla garantisce peraltro che la disponibilità o l’inclinazione ad adottare misure draconiane – dirigistiche, assolute e inderogabili – sia di per sé quella migliore per garantire l’efficienza di una strategia di salute pubblica, quando è evidente che il raggiungimento degli obiettivi si lega a un rapporto di fiducia e alla disponibilità da parte di milioni di persone di cooperare spontaneamente con le autorità e non alla capacità di controllo o di sanzione di queste ultime.

D’altra parte, dall’inizio del contagio (e anche da prima: quando tutti i politici e molti degli esperti invocavano una sorta di auto-isolamento turistico e commerciale dell’Italia), la preoccupazione delle istituzioni italiane è sembrata più quella dell’autotutela, che quella del contenimento, quella del fare di più e non di meno di quanto sarebbe stato ragionevolmente utile, pur di evitare di incappare nel giudizio del popolo o nelle accuse, tutt’altro che improbabili, di qualche pubblico ministero.

L’uso del principio di precauzione in una situazione di grande incertezza è uno dei nodi cruciali della politica contemporanea, anche al di là del campo della salute. Tra l’estremo della negligenza e quello dell’automatismo ideologico, tra il non fare nulla e fare tutto il possibile (anche se più del necessario) per escludere ogni pericolo, è difficile trovare la misura giusta ed è decisamente improbabile farlo quando a guidare la scelta delle pubbliche autorità – dei sindaci, dei presidenti di regione, dei ministri e dei capi di governo – sono ragioni di consenso di brevissimo termine.

L’intransigenza con cui il governatore lucano Vito Bardi ha decretato all’inizio della crisi la quarantena obbligata per i lombardo-veneti che sbarcavano in Basilicata e lo stolido accanimento con cui, tra un insulto e l’altro ai cinesi “magna-ratti”, il governatore veneto Luca Zaia ha difeso la tenuta del Vinitaly sono due esempi di decisione pubblica catturata dall’interesse particolare del decisore e non ispirata a un principio di interesse generale.

Il paradosso, in questa situazione, è che il Governo e la generalità delle forze politiche pensi che il corpo a corpo con il virus renda possibile una sorta di sospensione della realtà “non sanitaria”, tale da consentire all’esecutivo di fare tutto quello che crede e che vuole sul fronte della spesa pubblica, della deroga ai vincoli europei e, alla fine, della sfida alla sostenibilità del nostro debito. Si parla e forse si ragiona – ed è pure peggio – come se l’Italia che affronta questa sfida non fosse quella che è giunta al primo contagio con il minimo della crescita e il massimo del debito dell’eurozona, e come se la partita dei soldi che possiamo spendere e pompare nel sistema economico-produttivo, ibernato dal coronavirus e dall’auto-quarantena di milioni di italiani e di stranieri, fosse una questione da regolare formalmente con la Commissione europea e non un problema da gestire su mercati, che prezzano il nostro rischio Paese in modo assai più sostanziale e meno burocratico.

Oggi, le forze politiche fanno a gara per dire quanto sia necessario che l’Italia sfori il disavanzo stabilito dalla legge finanziaria e che l’Ue conceda lo sforamento dagli obiettivi di deficit concordati. Ma sono gli stessi partiti che sembrano non porsi neppure il problema che questo gravame finirà per pesare su un bilancio storicamente appesantito – anche negli ultimissimi anni – da una spesa “di consenso” insostenibile. La salute del bilancio pubblico è come quella del corpo umano. Gli errori, gli eccessi, le ipocrisie e gli abusi si pagano sempre tutti, spesso nel momento peggiore.

Se le persone più anziane e vulnerabili sono quelle che affrontano il contagio del coronavirus con più possibilità di lasciarci le penne, l’Italia affronta con analoghi rischi la crisi economico-finanziaria derivante dagli effetti collaterali del contagio. I mercati finanziari, cioè le scelte di investimento di imprenditori e famiglie (anche se italiani), non correranno spontaneamente in soccorso delle necessità dell’Italia. Gli operatori economici (anche se italiani) non risponderanno a incentivi “patriottici”, ma continueranno a muoversi con obiettivi di profitto. La spesa pubblica italiana non potrà gonfiarsi a dismisura sulla base delle nuove inderogabili esigenze – proprio perché le sue variabili non possono considerarsi indefinite – senza fare i conti con aggiustamenti interni, che creditori e autorità internazionali finiranno direttamente o indirettamente per richiederci.

Abbiamo bisogno di immettere liquidità e di farlo a debito (anche se quantità e qualità di questo debito non sono irrilevanti), ma in ogni caso dobbiamo procurarcela in un contesto politico-economico che, in assenza di Gesù, non è propriamente da Nozze di Cana. Insomma, se pensiamo, per fare un esempio, che i mercati ci presteranno generosamente i soldi per assumere con golosi incentivi i medici e gli infermieri che abbiamo anticipatamente pensionato con quota cento, abbiamo decisamente sbagliato i conti. Inoltre, non possiamo pensare che dosi massicce di liquidità immesse nei tubi bucati del nostro sistema economico e regolatorio, come quelli di molti acquedotti, ci garantiscano un prodigioso rimbalzo del PIL. Servono i quattrini, ma anche la riforme. Se il virus ci richiama al fatto che non esistono i miracoli, le conseguenze del virus ci torneranno a insegnare la lezione mai imparata che non esistono pasti gratis.

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