L’emergenza Coronavirus si aggrava e costringe al distanziamento fisico tra sconosciuti, tra lavoratori, tra chi vende e chi compra, tra fornitori e clienti. Viene messa alla prova la capacità della nostra di economia di sapersi adattare e di sopravvivere, in un momento in cui viene giustamente affermata la supremazia della salute. Ma la realtà è che l’Italia negli anni passati non ha saputo modernizzarsi, rendersi digitale, de-materializzarsi e non dipendere dal contatto personale
Se si dividono le attività economiche tra quelle più “materiali”, ovvero quelle che si devono realizzare con una presenza e uno scambio fisico, da quelle più “immateriali”, l’Italia risulta tra le prime quanto a peso sul PIL. Non si tratta solo della maggiore vocazione alla manifattura, che a conti fatti conta appena più della media UE (15% contro 14,3%), ma ancora di più dell’importanza dell’ambito del commercio (all’ingrosso e al dettaglio), dei trasporti e di alloggio e ristorazione. Il peso totale di questo ampio settore corrisponde al 19,3% del PIL, contro il 17% medio, o il 15,8% francese. Le attività immobiliari valgono da noi il 12,1%, nella UE il 10%.
L’Italia risulta al di sotto della media europea quanto a peso dei settori più “immateriali”, come i servizi di informazione e comunicazione, le attività finanziarie, quelle professionali e scientifiche. Nel 2018 il peso sul Pil delle attività più immateriali era del 16,4% in Italia e del 19,3% in Europa, ma si arrivava al 27,7% in Irlanda, al 24,3% nel Regno Unito, e nei Paesi Bassi. Oltre la Francia anche la Germania, in cui il settore manifatturiero è così importante, ci superava. Rispetto al 1995 abbiamo perso posizioni, allora eravamo molto vicini alla media europea. A incidere è soprattutto il peso minore dei servizi di informazione e comunicazione e delle attività professionali e scientifiche, insomma, quei servizi avanzati per cui abbiamo perso il treno negli anni ‘90. Non è un caso che i nostri dati risultino più vicini a quelli dei Paesi dell’Est che a quelli dei Paesi a reddito più alto dell’Ovest, con poche eccezioni (come l’Austria).
Naturalmente quella tra settori è una divisione arbitraria, si può avere un certo grado di immaterialità anche nell’ambito della Pubblica Amministrazione e dell’insegnamento e di materialità in alcune attività finanziarie o scientifiche, ma mediamente sono questi i settori in cui è possibile avere meno contatti fisici, soprattutto in un Paese come il nostro allergico allo smart working. Oppure con una digitalizzazione così ridotta.
Non è solo una questione strutturale di peso maggiore di questo o quel settore, ma soprattutto di propensione all’utilizzo della tecnologia in ogni ambito, anche quello che potrebbe apparire meno immateriale, come il commercio, o l’insegnamento. Non solo da parte dei lavoratori, ma anche nei rapporti con clienti e fornitori.
Secondo la Commissione europea siamo tra gli ultimi nella Ue quanto a digitalizzazione dell’economia. Solo Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria sono messe peggio.
Abbiamo dei deficit evidenti in molti ambiti. Se siamo a metà classifica, ma sempre sotto la media Ue, quanto a percentuale di lavoratori che usano computer e internet, il 50%, contro l’82% in Svezia, il 62% in Francia, il 59% in Germania, ci riveliamo quartultimi se guardiamo alla proporzione di imprese che vendono online, solo il 10%, contro il 18% medio, il 36% irlandese, il 25% inglese. Di nuovo, la propensione maggiore alla manifattura non può essere un alibi, se la Germania, tra i più grandi produttori al mondo, è comunque allineata alla media europea o la supera.
Un ritardo che ci portiamo dietro da sempre.
E anche se perlomeno nella percentuale di uso di Pc e Web da parte dei lavoratori vi è un certo recupero rispetto agli altri Paesi negli ultimi anni, rimane evidente la differenza tra piccole imprese, ovviamente meno digitalizzate, e la media. Il ritardo italiano viene quindi anche dal peso che le aziende più piccole hanno sulla nostra economia.
Tuttavia il ritardo più grave, e anche il più difficile cui rimediare in breve tempo, riguarda quello del capitale umano.
Secondo Eurostat solo il 22% degli italiani aveva competenze superiori a quelle basiche nel 2018, contro il 33% medio europeo. Si raggiungeva il 50% nei Paesi Bassi, il 49% nel Regno Unito, il 39% in Germania, il 36% in Spagna.
Siamo un Paese di anziani, per giunta poco scolarizzati, è vero, ma il dato più grave è che anche prendendo solo i lavoratori e la popolazione più giovane, tra i 25 e i 34 anni, quella che è all’inizio della propria carriera, la classifica europea cambierebbe poco.
Solo il 35% dei giovani ha skill digitali più alte del livello di sufficienza, e rimaniamo indietro rispetto al 50% medio, che viene superato, anche di molto, da tutti quei Paesi più avanzati cui preferiamo sempre paragonarci. In questo caso però il confronto è proprio impietoso.
E i progressi degli ultimi anni non sono stati molto confortanti. Non c’è stato quel catching up che spesso si verifica con chi è indietro che mostra miglioramenti maggiori di chi è più avanti. Le statistiche italiane infatti sono progredite meno di quelle medie europee.