Circa 2 milioni di lavoratori, donne e stranieri soprattutto, che popolano le case italiane prendendosi cura di bambini, anziani e disabili, nel pieno dell’emergenza coronavirus rischiano di restare senza lavoro. Sono colf, badanti e baby sitter, i grandi esclusi del decreto “Cura Italia”. E con pochi spiccioli in mano. La maxi-manovra da 25 miliardi, che ha esteso la cassa integrazione in deroga a tutti, puntualizza in uno specifico comma (il 2 dell’articolo 22) che «sono esclusi i datori di lavoro domestico». Ma in un periodo in cui le entrate economiche crollano e in tanti faranno ricorso all’aiuto degli ammortizzatori sociali straordinari, molte famiglie non potranno continuare più a garantire lo stipendio alle proprie collaboratrici domestiche. Risultato? Migliaia di licenziamenti.
«Il fatto che ci sia un comma dedicato nell’articolo 22 esplicita la volontà di escludere i lavoratori domestici. Non capiamo perché», si domanda Andrea Zini, vicepresidente di Assindatcolf, l’associazione che riunisce i nuclei familiari datori di lavoro. «La cassa in deroga sarebbe stato lo strumento migliore, almeno per proteggere gli 865mila lavoratori domestici regolari, secondo i dati Inps, sui 2 milioni censiti da Istat».
Dal ministero del Lavoro, in via informale, per il momento assicurano solo che le colf saranno coperte invece dall’articolo 44 del decreto. Quello che prevede l’istituzione del “Fondo per il reddito di ultima istanza”: un grande calderone, con un limite di spesa di 300 milioni, che dovrebbe coprire tutti coloro rimasti senza cassa o indennità, inclusi i professionisti iscritti agli ordini. Nelle prime bozze del decreto, per accedere al fondo, era comparso un tetto massimo di reddito di 10mila euro – salito a 20mila dopo che Assindatcolf ha fatto notare che una lavoratrice domestica a tempo pieno ha una busta paga di 16-17mila euro. Ma alla fine, nel testo firmato dal presidente della Repubblica, è scomparsa ogni soglia di reddito. «Bisognerà capire ora chi rientrerà nella platea, perché a questo punto potrebbe essere compreso pure chi guadagna fino a 100mila euro», dice Zini. Le risorse sono limitate e il rischio è che, «una volta esauriti i soldi, quelli che arrivano dopo restano a bocca asciutta».
Entro 30 giorni, il ministero del Lavoro e il ministero dell’Economia dovranno approvare uno o più decreti attuativi con i criteri di priorità e le modalità di attribuzione dell’indennità. Ma da Assindatcolf stanno già preparando la richiesta da inviare alla ministra Nunzia Catalfo per fare in modo che colf, badanti e baby sitter vengano comprese nella distribuzione delle risorse.
Nel caso in cui si tratti di mamme e papà con figli fino a 12 anni, i lavoratori domestici potranno comunque usufruire dei 15 giorni di congedo o del voucher baby sitter da 600 euro. Se il domestico è chiamato a osservare un periodo di quarantena o di isolamento fiduciario certificato, questo sarà equiparato alla malattia, e a pagare però non sarà la famiglia come avviene in condizioni di normalità ma lo Stato. Se, invece, il domestico venisse contagiato nell’esercizio delle sue attività, l’evento sarà trattato come infortunio, con tutte le tutele previste dall’Inail. E chi anche in questi giorni di emergenza continua a svolgere il proprio lavoro nelle case, oltre 2,5 milioni secondo Assindatcolf, potrà usufruire del bonus da 100 euro destinato ai dipendenti fino a 40mila euro di reddito (articolo 63) – che per i domestici dovrà essere recuperato poi in fase di dichiarazione dei redditi e non in busta paga, non essendo il datore di lavoro sostituto di imposta, e solo dopo che la famiglia avrà certificato le presenze nel mese di marzo.
Ma in questi giorni di emergenza sanitaria, sia per evitare rischi di contagio sia perché le famiglie sono a casa, in tante sono rimaste a casa a loro volta, anticipando le ferie previste da contratto. «Molte famiglie ci hanno assicurato che, una volta finite le ferie, continueranno a garantire lo stipendio», dice Zini. «Ma si potrebbe pensare anche ad accordi privati che prevedano permessi non retribuiti, nel caso in cui l’onere dovesse diventare troppo gravoso. L’ultima istanza, altrimenti, resta il licenziamento». La norma “anti-licenziamento” per 60 giorni, prevista dall’articolo 46 del decreto, si rifà alla legge 604 del 1966 sui licenziamenti individuali e collettivi e non riguarda il lavoro domestico. Le famiglie che non potranno più permettersi questa spesa, saranno quindi libere di licenziare. «Il nostro invito, ovviamente, è di evitare situazioni di contrapposizione formale e di usare gli strumenti contrattuali a disposizione», dice Zini.
Nel decreto, è prevista anche la sospensione fino al 31 maggio del pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori domestici (articolo 37). Ma sembra troppo poco per disincentivare i licenziamenti. «È solo un rinvio dei pagamenti. Si rinvia, ma si accumulano debiti», dice Zini. «Quello che servirebbe è una deduzione del costo del lavoro per le famiglie. Ad oggi le agevolazioni fiscali di cui disponiamo sono irrisorie. Se vogliamo far emergere davvero il lavoro nero, bisogna che le famiglie abbiano un vantaggio rispetto alla situazione attuale». Secondo i calcoli di Assindatcolf, una manovra del genere avrebbe un costo effettivo di 72 milioni di euro, facendo emergere dal nero 300-400mila rapporti di lavoro, con un beneficio fiscale per le famiglie da 2 a 5mila euro. «Se si faranno altri decreti per il rilancio dell’economia, questa misura andrebbe presa in considerazione», dice Zini.