Tra tutti gli esseri viventi, il somaro è quello che Roberto Burioni sembra disprezzare di più, tanto che “somaro” è per lui il peggiore degli insulti, sinonimo di ignoranza e di stupidità (anche se un animalista avrebbe qualcosa da eccepire). Il virus, invece, che non è un animale come il somaro, e nemmeno a rigore un essere vivente ma solo un minuscolo “parassita intracellulare”, gode della sua massima considerazione. Non sentirete mai Burioni in un talk show dire a un avversario «Sta’ zitto, virus che non sei altro!». Sarebbe un complimento.
Da buon virologo, il professore ammira il virus, lo odia e al tempo stesso lo ama, proprio come un Lincoln Rhyme o un Harry Hole odia-ama il serial killer a cui dà la caccia. Lo ritiene dotato, se non di intelligenza, di una sua scaltrezza diabolica che gli consente di replicarsi a spese nostre e di colpire quanta più gente possibile. Lo vediamo in questi giorni: di sicuro il virus si sta dimostrando più intelligente di chi nega la sua pericolosità, degli intellettuali agambenizzati che vedono nell’epidemia un pretesto per instaurare lo stato d’eccezione o dell’impaziente Zero (nel senso di Renato) che va in giro per Trastevere ad abbracciare tutti quelli che incontra, perché a Roma, in fondo, la caciara vale più della caccia (al Covid-19). Ma più intelligente, anche, dei paranoici che passeggiano in Parco Sempione con la mascherina da marmista, che non filtra neanche le polveri sottili, o dei governanti e governatori che prendono decisioni affrettate, tardive o contraddittorie.
C’è poco da scherzare. «La Cina, gigante economico e politico, che qualcuno pensava di minacciare con missili, bombe nucleari, sottomarini e carrarmati è messa in ginocchio da qualcosa che pare poco più di nulla, un quasi niente mille volte più piccolo del diametro di un capello…A causa di un parassita visibile solo per mezzo dei raggi di un microscopio elettronico, che con furbizia satanica inganna le cellule e distrugge i polmoni, oggi gli italiani si affacciano dalle finestre sulle strade spettralmente vuote, mentre i cinesi guardano il cielo pensando al loro futuro molto incerto».
Insomma, basta un virus per tenere in scacco il mondo, e solo la scienza può debellarlo: questo è il messaggio che ci lancia Burioni nel suo nuovo libro Virus, la grande sfida (Rizzoli editore), scritto in collaborazione con l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, da domani nelle librerie (15 euro ben spesi, il libro è bellissimo e i proventi andranno alla ricerca sul Covid-19).
La sfida parte da lontano. In più occasioni, ci ricorda Burioni, i virus o i loro cugini batteri hanno cambiato il corso della storia. L’epidemia di peste del 541 d.C., ripetutasi poi nei due secoli successivi, segna la vera fine dell’impero romano e l’inizio del Medioevo. La peste nera del Trecento è la premessa della crescita nell’età moderna, con il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. In entrambi i casi, il bacillo assassino arriva a bordo delle navi e nelle carovane dei mercanti che trafficano con l’Oriente: «Le pandemie di peste dimostrano che facilità di spostamento di merci e persone, condizione essenziale dello sviluppo non solo economico dell’umanità, significa anche facilità di contagio».
Senza la guerra mondiale, senza i grandi movimenti di truppe e il carnaio delle trincee, l’influenza “Spagnola” del 1918 non si sarebbe trovata la strada spianata, e forse non avrebbe potuto sterminare 50 o 100 milioni di persone in tutto il mondo. È il tallone d’Achille delle società globalizzate, come quella in cui viviamo oggi.
Il nemico invisibile è sempre in agguato, assumendo di volta in volta sembianze e nomi diversi, colera, Aids, Ebola, Sars. Per fortuna, rispetto ai tempi di Giustiniano, ma anche soltanto a un secolo fa, disponiamo di armi formidabili per contrastarlo. Non solo farmaci, antibiotici e antivirali, vaccini, tecnologie biomediche e strutture sanitarie avanzate, quanto meno nel mondo sviluppato. Ma anche e soprattutto un esercito di “cacciatori di virus” e di epidemiologi in grado di studiarne e prevenirne le mosse. Nel libro sono citati i più famosi, come i pionieri della lotta all’Hiv Michael Gottlieb, Robert Gallo e Luc Montagnier, o il martire della scienza Carlo Urbani, il medico italiano che da Hanoi, nel 2003, fu il primo a lanciare l’allarme per l’epidemia di Sars e a sua volta morì stroncato dall’infezione.
Burioni ci propone pagine da bio-thriller che sconsiglierei alle persone impressionabili, ma anche brani di altissima divulgazione, dove sfoggia le sue notevoli doti di comunicatore, capace di trovare sempre la metafora più adatta.
Ci racconta cos’è il ribosoma e come funziona lo spillover, il salto di un microrganismo dal pipistrello all’uomo, la storia della quarantena e la nascita dell’epidemiologia. Ecco cosa scrive a proposito della micidiale “furbizia” del virus: «Il virus è stupidissimo e fa miliardi di miliardi di errori, ma ha un vantaggio: il mondo esterno gli seleziona quelli che sono utili per la sua replicazione, e butta via gli altri. Il virus è come un incapace giocatore di scacchi che fa tutte le mosse possibili in un numero altissimo di scacchiere; poi però arriva un maestro bravissimo che butta via tutte le scacchiere, tranne quella in cui ha fatto la mossa migliore. In queste condizioni, anche se non si sa giocare a scacchi è facile battere un campione!… Insomma, i virus sbagliano, sbagliano sempre. Ma siccome la natura seleziona per loro lo sbaglio più conveniente, alla fine fanno sempre la cosa giusta. È facile giocare con successo al Superenalotto mettendo cifre a caso se qualcuno butta via le schedine dove abbiamo scritto i numeri sbagliati. Alla fine si vince sempre».
La vittoria dei virus si chiama epidemia. Ed è come una foresta in fiamme, dove il fuoco si propaga da un albero all’altro. Bisogna reagire subito, prima che sia troppo tardi: «Così come un serial killer – ecco Burioni il detective – deve essere subito assicurato alla giustizia, nel caso delle epidemie è fondamentale interrompere il contagio il più presto possibile. Però non è facile: da una parte ci sono microbi e virus che hanno avuto a disposizione secoli per affinare le loro armi e le loro strategie, dall’altra ci siamo noi insieme agli epidemiologi, che esistono relativamente da poco».
Ma le misure devono essere tempestive, trasparenti ed efficaci, non come nel caso dell’esplosione di Ebola in Africa nel 2014 o della Sars in Cina nel 2002, quando le autorità di Pechino nascosero troppo a lungo la realtà: «Se l’intervento preventivo non è definitivo, il virus riesce a continuare a diffondersi in silenzio, rimanendo in un certo senso sottotraccia. Si trasmette da un individuo a un altro in maniera silenziosa ma costante, aspettando il momento opportuno per far riprendere vigore all’incendio».
Burioni sta antipatico a molti, come tutti quelli che dicono verità sgradevoli. Ma se avessimo dato retta a lui, quando già agli inizi di febbraio invitava a non sottovalutare la minaccia coronavirus e tanti gli davano dell’uccellaccio del malaugurio, se non di peggio, forse adesso non saremmo qui murati vivi a Milano.