Once Were BrothersUna volta erano fratelli, la versione di Robbie Robertson sulla Band americana per eccellenza

La ricostruzione dei fasti della più seminale formazione rock è un prontuario per raccontare a chi non c’era quanto fosse follemente scintillante fare musica negli Stati Uniti alimentati a benzina, anziché a wi-fi

Locandina

Sconcerto immediato: il gruppo si chiamava “The Band”. Non “Robbie Robertson and the Band”. Era appunto una banda che non cercava un capo, cinque teste calde bizzarre e diversamente geniali, non gli accompagnatori di un lead singer. Perché diavolo il documentario che adesso ricostruisce i fasti della più seminale formazione rock americana, recita: “Once Were Brothers – Robbie Robertson and the Band”? Le risposte sono pragmatiche e pleonastiche. Robbie Robertson è uno dei due membri rimasti vivi della formazione originale: il tastierista e vocalist Richard Manuel s’è impiccato nel 1986, il bassista e vocalist Rick Danko se n’è andato a 52 anni per infarto nel ’99 e Levon Helm, batterista e vocalist nonché purissimo american hero, è scomparso nel 2012 a Woodstock, dove ha continuato ad abitare, nei dintorni della Big Pink, la fattoria dipinta di rosa dove nacque il mito della Band e venne registrato uno dei suoi due album indispensabili (“Music from Big Pink”, l’altro, il migliore, porta solo il nome del gruppo). Garth Hudson, musicista classico prestato al rock’n’roll, introverso e formidabile nelle intuizioni di contaminazione trasmise ai ruvidi amici, vive appartato da qualche parte, non in buone condizioni di salute e pare che il 26enne Daniel Roher, il regista del documentario che non era nemmeno nato quando la Band solcava gli States, l’abbia intervistato, ma abbia poi rinunciato a inserire quelle parti nel montaggio, chissà perché.

Insomma, resta Robbie Robertson, chitarrista e non-vocalist ai tempi del gruppo, l’unico che, consumato il cruento divorzio con gli altri, abbia mantenuta in piedi una vera carriera da rockstar, come solista e come collaboratore musicale di Martin Scorsese, nel frattempo diventato il mentore della sua seconda vita artistica. I due s’erano conosciuti giovani, Martin aveva appena girato “Mean Streets” con la produzione di Jonathan Taplin, ex-road manager della Band, e fecero subito lega. Quando nel 1976 arrivò il momento di girare il film-testamento della Band, “The Last Waltz”, Robertson si fece in quattro per avere Scorsese alla guida delle riprese, nonostante nelle stesse settimane fosse impegnato sul complicato set di “New York, New York”. Probabile sia vero che a quel punto Robbie già pensasse in proprio e che nel sodalizio con Scorsese vedesse chances interessanti. In effetti gli va riconosciuta la lungimiranza: a 76 anni si è appena visto assegnare la responsabilità musicale di “The Irishman”, l’ultima pellicola di Scorsese, che a sua volta ha accettato di produrre questo documentario. In sostanza, è una specie di pendant del suo ultimo valzer, buono per ripercorrere, in modo un po’ edulcorato ma con partecipazioni eccellenti (Springsteen, Clapton…), gli inizi e la gavetta della Band, prima accompagnando il cantante rockabilly Ronnie Hawkins e poi accettando l’ingaggio da parte di Bob Dylan. Un sodalizio storico quello con Bob, sulla strada dell’elettrificazione del suo sound, che li portò prima ad accompagnarlo nei turbolenti concerti della “conversione” e che poi, come epilogo, ebbe il ritiro spirituale a Woodstock, la lunga villeggiatura del ’68, ancora circondata da tinte esoteriche e la cui basilare documentazione sono i venerabili “Basement Tapes”.

È lo stesso Robertson a rievocare i mitici inizi nel Chitlin Circuit, i locali di provincia dove bianchi e neri interagivano, alla faccia della segregazione: «Eravamo immersi nel gospel, nella Mountain music, nel migliore blues, nel più fantastico rock’n’roll. E intanto Garth Hudson ci faceva scoprire la più meravigliosa musica classica…». Tant’è: da quel mix prodigioso nasce il suono della Band e dei primi splendidi album, connotati dal più democratico, anzi, rivoluzionario spirito di collaborazione, sulla base dei contributi singoli – che contemplavano il jazz drumming di Helm, le citazioni pop di Danko, il gusto vaudeville di Manuel.

Per una mezza dozzina d’anni The Band diventa “il” gruppo americano, nato dalle radici della tradizione e titolare di un suono in cui forma e contenuti fondono originalità e appartenenza nel culto dell’individualismo, sul limitare di quella modernità che l’avrebbe domato. Il declino sarebbe stato sbrigativo, alimentato dagli eccessi di questi bohémien di strada: droghe, alcol e dissipazioni, col solo Robertson a tentare di tenere insieme la baracca, come ricorda nell’autobiografia “Testimony”, raccontando come per sottrarre Helm dalla dipendenza dalla cocaina, lui stesso divenne tossicomane. Il gruppo non si scioglie mai, semplicemente i membri non sono in grado di fronteggiarne gli impegni. Robertson tira la volata: il film, Scorsese, una separazione piena di veleni. Allorché scriverà la sua di biografia,“This Wheel’s on Fire”, Helm descriverà Robertson come un opportunista, pronto a farsi vendere le royalties del repertorio della Band, in cambio di soldi per comprare altre droghe. Ma il tempo, la morte e le leggende hanno addolcito i lineamenti di quelle vicende.

“The Last Waltz” è diventato una pietra miliare del classic rock e questo nuovo documentario, presentato con sfarzo nella serata inaugurale del festival di Toronto, è il suggestivo prontuario per raccontare a chi non c’era quanto fosse follemente scintillante la vita dei rocker nell’America alimentata a benzina, anziché a Wi-Fi. Il superstite Robbie Robertson ramazza le chips rimaste sul tavolo e, dal momento che amministra la memoria storica di vicende che sprofondano nel passato, promuove la propria santificazione. Nelle interviste racconta che lui non è mai stato convinto dello stile di vita autodistruttivo messo in atto dagli altri, ma che è stato tutto bellissimo e irripetibile e che la parola-chiave della saga è “fratellanza”, in qualsiasi modo la si interpreti.

Già, perché la tentazione di pensare a una versione cartolinesca della realtà, è innegabile. Certo, c’è quello sfondo di America selvaggia e ineducata, ma oggi è quasi irritante l’evocazione di questa fratellanza come valore sublime – da band, appunto – declinato con tutta la sexyness possibile con quelle camicie di flanella, i Ray-Ban, le macchine con cilindrate impresentabili, i capelli arruffati, il mito della “sperimentazione”, la perenne ricerca del mistero della musica americana, quella che fa sanguinare i cuori e sgorgare lacrime. Che volete farci? Sarà l’invidia.

Ci resta Robbie il reduce, che nelle interviste indossa molto cerone e un progetto di parrucchino, ha una voce che ancora muove le viscere e un disco uscito da poco, “Sinematic”, ridondante ma struggente, quando si ricorda di suonare la chitarra. E che ci lascia parecchio interdetti quando annuncia che il doc di Roher è solo l’antipasto della galleria di affreschi che tramanderanno l’elettrica parabola dei suoi: è in gestazione, superproduzione WB, il film sulla vera storia della Band. Regia di Jez Butterworth e Robbie in cabina di sceneggiatura. C’è da scommetterci, che i vecchi soci, vivi e morti, rosicheranno, pronunciando bestemmie in mezzo ai denti.

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