Sfida globaleIl coronavirus ha accelerato la storia, ma non la cambierà

Richard Nathan Haass, presidente del Council on Foreign Relations, ha scritto un lungo articolo su Foreign Affairs per ragionare sull’impatto della pandemia sugli equilibri geopolitici

INA FASSBENDER / AFP

«La pandemia accelererà la Storia piuttosto che rimodellarla». È il titolo di un articolo comparso su Foreign Affairs a firma di Richard Nathan Haass: dal 2003 presidente del Council on Foreign Relations

Diplomatico di formazione, Haass è stato direttore del Policy Planning per il Dipartimento di Stato e uno stretto consigliere dell’allora Segretario di Stato Colin Powell. Soprattutto, però, negli ultimi anni si è segnalato come previsore di una nuova era della politica mondiale: «previsore», perché profeta ha in sé una carica di compiacimento da cui Haas sembra alieno. 

Non sprizzava evidentemente gioia da tutti i pori quando nel maggio 2015 in una intervista alla Bbc previde che la diminuzione del potere Usa per via della proliferazione di armi nucleari e cyberterrorismo da parte sia di Stati che di entità non statuali avrebbe portato a una «era di disordine».  Quell’analisi nel 2017 sarebbe stata sviluppata in un saggio che lui stesso ha citato in questo articolo: A World in Disarray: American Foreign Policy and the Crisis of the Old Order.

Secondo le sue stesse parole, «descriveva un panorama globale di accresciuta rivalità tra le grandi potenze, proliferazione nucleare, stati deboli, sempre maggiori flussi di rifugiati, e crescente nazionalismo assieme a un ruolo ridotto degli Stati Uniti nel mondo». In questa chiave, «ciò che cambierà come risultato della pandemia non sarà il dato del disordine ma la sua estensione». 

Anche da noi c’è qualcuno che ha paragonato la pandemia a una Terza Guerra Mondiale, sentenziando il successo della Cina e spingendo perché l’Italia si schieri da subito con i vincitori. Haass fotografa come le ipotesi che stanno venendo fatte siano quanto mai variegate. «Alcuni prevedono che la pandemia condurrà a un nuovo ordine guidato dalla Cina; altri credono che innescherà il venir meno della leadership cinese. Alcuni dicono che porrà termine alla globalizzazione; altri sperano che ci condurrà in una nuova era di cooperazione globale. E altri ancora proiettano che supercaricherà il nazionalismo, minerà il libero commercio, e porterà a cambi di regime in vari Paesi».    

Ma secondo Haass è improbabile che il mondo post Covid-19 sa radicalmente diverso da quello che lo ha preceduto. Più che cambiare la direzione della Storia, aumenterà la velocità della corsa. Quindi non «un punto di svolta», ma una semplice «stazione» lungo il percorso già intrapreso.  È presto per prevedere se la crisi finirà in sei, in 12 o in 18 mesi: dipenderà dallo scrupolo con cui la gente seguirà le misure di sicurezza indicate, dalla rapidità con cui si troveranno cure e vaccini, dall’estensione dell’aiuto economico che bisognerà distribuire. 

Con tutto ciò, «il mondo che emergerà dalla crisi sarà riconoscibile». Il venir meno della leadership statunitense, la mancanza di cooperazione internazionale, la discordia tra le grandi potenze erano fenomeni già evidenti: specie con l’arrivo alla Casa Bianca di un personaggio come Donald Trump. La pandemia li ha accentuati e resi più visibili, anche perché hanno indebolito la capacità di risposta globale in modo forse irreparabile.  Il timore di Haass è che peggiorerà ancora.

Haass ammette che in parte questa crescente carenza di leadership da parte degli Stati Uniti deriva da quello che Fareed Zakaria ha descritto come «the rise of the rest». Una «ascesa del resto del mondo», e in particolare della Cina, in cui in inglese c’è un gioco di parole rispetto a «the rise of west», l’ascesa dell’occidente.  

Ma oltre al relativo declino del vantaggio economico e militare degli Stati Uniti ci sono state anche le decisioni degli ultimi presidenti. Ha iniziato Obama con una ritirata da Afghanistan e Medio Oriente, prima ancora che Trump litigasse sistematicamente con gli alleati, a smarcare gli Stati Uniti dal loro tradizionale ruolo di guida nelle più importanti problematiche transnazionali. L’«America first» di Trump implica d’altronde l’idea che meno gli Stati Uniti «sprecano» risorse e energie nelle faccende mondiali per concentrarsi su quelle interne, e meglio è. 

Una linea che l’elettorato ha premiato. Ma d’altra parte anche il modello dell’American Way of Life ha perso appeal, per il resto del mondo. Una dialettica politica interna che come fotografava d’altronde anche Jared Diamond nel suo ultimo libro “Come rinascono le nazioni” è sempre più incanaglita; l’immagine di violenza delle sparatorie incontrollate; la cattiva gestione della crisi del 2008: il problema della droga: tutto ciò dà una cattiva immagine, destinata solo a peggiorare nel momento in cui per la cattiva gestione dell’emergenza gli Stati Uniti sono divenuti il Paese con più infettati e con più morti.   

Il bello, o il brutto, è che proprio il Coronavirus è il massimo esempio di una sfida globale, che avrebbe richiesto un strategia globale. Invece, «la pandemia ha devastato Paesi aperti e chiusi, ricchi e poveri, Est e Ovest. (Ma) quel che è mancato è stato ogni segno di risposta globale significativa». Trump a parte, anche la Oms è apparsa quasi irrilevante, mentre le risposte spesso sono state neanche a livello nazionale, ma subnazionale. Come dimostra il ruolo dei governatori non solo statunitensi ma anche brasiliani o italiani, spesso in contrapposizione ai rispettivi governi.  

Ovviamente, la tensione tra Stati Uniti e Cina che era già alta con le guerre commerciali è destinata ad aumentare, nel momento in cui Pechino è accusata di aver infettato il mondo dopo aver nascosto il contagio, a punto che già il Missouri ha iniziato a chiedere i danni. In più, lo sfacciato tentativo di Xi Jinping di approfittare del disastro mondiale da lui stesso provocato per accrescere l’influenza del suo regime non migliora le cose. D’altra parte, come osserva Haass, «nulla della corrente crisi cambierà la visione della Cina che la presenza Usa in Asia è una anomalia storica, o ridurrà i suoi risentimenti verso la politica degli Stati Uniti su una quantità di temi, tra cui il commercio, i diritti umani o Taiwan». 

Né l’ostilità verso la Cina sarà l’unica spinta verso un ritorno a una crescente autarchia e protezionismo. «Il commercio globale si riprenderà parzialmente, ma la gran parte di esso sarà gestita dai governi più che dai mercati».  Ancora peggio, «probabilmente la pandemia accentuerà la crisi della democrazia che è stata evidente durante gli ultimi 15 anni». 

Aumenterà la già crescente ostilità verso immigrati e rifugiati in società dove alla crescita della disoccupazione si aggiungerà la paura del contagio – proprio mentre la crisi economica provocata dalla pandemia aumenterà la spinta a emigrare.  Peraltro la domanda di un rafforzamento dello Stato si sconterà con la realtà di Stati sempre più deboli e indebitati, e Haass prevede guai già a breve in realtà come l’India, il Brasile o il Messico. Per non parlare dell’Africa. 

Ma anche in Europa si allargherà quella spinta alla divaricazione della Unione europea che ha già portato alla Brexit. Più in generale, «le libertà civili saranno trattate da molti come una perdita di guerra, un lusso che non può essere sostenuto in una crisi. Inoltre le minacce poste da Paesi illiberali come Russia,  Corea del Nord e Iran ci saranno ancora quando la pandemia non ci sarà più». E anzi potranno essere aumentate, nel momento in cui l’attenzione mondiale era distratta.  

«Idealmente», conclude Haass, «la crisi dovrebbe portare a un maggior impegno verso la costruzione di un ordine mondiale più robusto, allo stesso modo in cui il cataclisma della Seconda Guerra Mondiale condusse agli accordo che promossero pace, prosperità, e democrazia per quasi tre quarti di secolo». Ma c’è invece il rischio che lo scenario sia piuttosto simile a quello post-Prima Guerra Mondiale, che in vent’anni portò ai totalitarismi, alla crisi e a un altro immane conflitto. Peraltro, anche quel primo dopoguerra fu segnato dalla micidiale pandemia di Spagnola, che coi suoi 50-100 milioni di vittime provocò probabilmente più sconquassi che non i 10 milioni di vittime delle trincee.

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