Il virus in medio orienteIn Libano la paura del contagio non ferma le proteste di piazza

Il lockdown ha messo un freno alla rivolta cominciata questo autunno, ma dopo una relativa tregua la malattia ha peggiorato la situazione: il Paese è in default, il governo è impopolare, l’inflazione è alle stelle. Beirut rischia il collasso

Ibrahim CHALHOUB / AFP

Quando nel XIV secolo il viaggiatore arabo Ibn Battuta la visitò, raccontò di «mercati eccellenti e fertili terreni». Le arcate del suo suq testimoniano ancora la ricchezza di un’era carica di scambi e prospera di commerci. Oggi Tripoli, porto a nord di Beirut, è il luogo del malcontento sociale, delle disuguaglianze economiche, della rivolta e degli scontri. 

Lo scorso autunno il dissenso ha attraversato il Libano per settimane e la città è stata ribattezzata “la sposa della Rivoluzione” per l’intensità delle sue manifestazioni. Le piazze erano piene e in festa: i video dei dj che da consolle improvvisate sui balconi facevano ballare la folla hanno fatto il giro del mondo. 

L’atmosfera è cambiata, radicalmente, in pochi mesi: nella notte tra lunedì e martedì, e poi ancora ieri, le strade deserte di una città, svuotata come tante altre dal coronavirus, si sono riempite di centinaia di manifestanti arrabbiati, che si sono scontrati con l’esercito, tra il fumo dei lacrimogeni, il lancio di pietre, gli spari, i copertoni bruciati. Un ragazzo è rimasto ucciso. 

La paura della contagio in Libano non è sufficiente in questi giorni a contenere il malcontento. Così, i manifestanti sfidano il lockdown e le misure restrittive imposte dalle autorità. Gli scontri di lunedì e di ieri sono stati anticipati da piccole proteste nei popolari sobborghi meridionali di Beirut e a Tripoli poche settimane fa. Poi, la rabbia è esplosa.

Pesa sulla frustrazione della popolazione l’ammissione del governo, in un recente rapporto, di perdite pari a 83 miliardi di dollari. Le banche sono diventate gli obiettivi. A Tripoli sono stati presi d’assalto tre istituti di credito e alcuni bancomat. Da settimane non è possibile ritirare dollari dalle filiali, ed è stato imposto un tetto sulle somme in valuta locale. La lira libanese è crollata di oltre il 50 per cento in pochi mesi, e il suo valore continua a scendere trascinando con sé gli stipendi e il potere d’acquisto della popolazione. La classe media si è impoverita. 

L’inflazione è esplosa e, complice il lockdown, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 40%. Si tratta della peggiore crisi economico-finanziaria dalla fine della guerra civile, nel 1990. Ed era così già prima della pandemia. «La crisi economica, il fallimento dello Stato, la svalutazione della lira. C’erano già tutti gli ingredienti per il disastro. Poi è arrivato anche il coronavirus. Oggi in Libano il ciclo economico si è arrestato e molte persone sono rimaste senza un salario», ci dice Lina Hamdan, ex candidato indipendente alle elezioni del 2018, attivista in prima linea nell’organizzazione della piazza a ottobre. 

La diffusione anche in medio oriente del virus ha messo un freno alla rivolta di quei giorni, innescata anche dalla crisi economica, dalla frustrazione della popolazione contro la corruzione, il nepotismo e il clientelismo di un’intera classe politica, considerata inetta e all’origine dei guai economico-finanziari del paese. 

La pressione della rivoluzione ha portato alla creazione di un nuovo governo che però, accusa Lina, non ha fatto nulla per garantire riforme. «Avevamo chiesto un esecutivo di tecnocrati. È arrivata l’ombra di quello che c’era prima: tecnici sì, ma consiglieri dei soliti politici. E così, la strada ribolle». 

Soltanto pochi giorni fa, i manifestanti hanno adattato la loro protesta ai nuovi tempi di pandemia, salendo a bordo delle loro automobili, le bandiere fuori dai finestrini, e guidando attraverso la capitale Beirut. Lina e altri protagonisti e gruppi della rivoluzione pianificano per domani «la prima riunione da quando il virus ha messo fine alle manifestazioni», «con le dovute precauzioni e mantenendo le distanze di sicurezza». 

La pandemia, spiega, «non deve diventare un pretesto: le riforme politiche ed economiche che servono si possono fare anche con il coronavirus». Intanto, aumentano le persone che quando cala la sera sfidano il coprifuoco e scendono in strada, perché tra crisi economica ed emergenza sanitaria crescono «povertà e problemi sociali, cui il governo non ha trovato una soluzione».