L’ha detto prima e meglio di tutte Diane Keaton il diciannove marzo, quando ha messo sul suo profilo Instagram un video “from my good friend, Marla Garlin” che mostrava come fosse possibile per un parrucchiere fare una messa in piega garantendo la distanza di sicurezza, con spazzola e phon attaccati a due lunghi bastoni rossi.
Abbiamo riso, ma di nascosto, consapevoli che lamentarsi della chiusura di certi negozi sarebbe stato di chiara sgradevolezza, con gli ospedali pieni, il bollettino nero, la preoccupazione per il divario sociale, per i senza casa, per le violenze domestiche, per i medici e per i letti e per le mascherine. Infatti non ci siamo lamentate. Io però ho pensato a Maria.
È una signora che da anni chiede l’elemosina sempre nello stesso posto, e una volta le ho chiesto cosa le mancava di più da quando, come lei stessa mi aveva raccontato, aveva perso tutto e dormiva in un campo nomadi, dopo la guerra che aveva distrutto il suo paese. Maria ha giganteschi occhi radiosi e la pelle ispessita, ride ogni tre parole, non finirebbe mai di parlare e le piace soprattutto prendere in giro i suoi guai. Mi ha risposto: vorrei andare dal parrucchiere. E poi: mi piacciono i fiori.
Ho pensato a Maria, stamattina, come a una delle persone che non vedo da più tempo, da troppo tempo; mi manca scambiare due chiacchiere ogni settimana lo stesso giorno: era rassicurante per me e forse per entrambe (sei ancora viva, sei ancora qua?, ciascuna chiede con lo sguardo all’altra). Ho pensato alla sua voglia di fiori mentre mi vergognavo della mia.
Un’amica mi aveva segnalato un sito che propone tulipani per Pasqua e un’euforica fiducia mi aveva pervaso: difficile non credere che i tulipani colorati, con i gambi galleggianti tra cubetti di ghiaccio, non siano obbligati a sprigionare miracolose taumaturgie dell’umore in questi “giorni di mezza festa e di quasi male”. Però non riuscivo a cliccare, guardavo lo schermo e pensavo: per colpa di questo sciocco ordine qualcuno salirà su un motorino e per guadagnarsi da vivere dovrà portare fiori in giro per la città. E d’altra parte, l’uguale e l’opposto: quest’azienda starà cercando, come tutte, di non fallire, e per merito di questo sciocco ordine qualcuno salirà su un motorino e per guadagnarsi da vivere potrà portare fiori in giro per la città.
Mia cugina studia all’università e per pagarsi l’affitto fa la fattorina. Quando è iniziato l’isolamento, sua madre le ha chiesto di smettere di lavorare e lei ha risposto che non se ne parlava neanche. Una volta a settimana mia zia ordina la pizza, così può salutare sua figlia a distanza di sicurezza. Dice che sono le pizze più buone che abbia mai mangiato in vita sua.
Ho cliccato sì, e adesso sto scrivendo con un mazzo di tulipani bianchi, rosa, rossi e arancioni vicino al computer. Potevo farne a meno, certo, arrendendomi a dare ragione a tutto quello che ho sempre combattuto: che serva solo il pane, e che chiedere il pane non sia connesso a chiedere le rose e i tulipani. Rosella Postorino, nelle “Assaggiatrici”, ha scritto: «La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana».
Avere fiori in casa è come camminare per strada di notte, un’euforia che non pensavo di poter provare adesso e, anche se non conosco chi me li ha portati, e non l’ho neppure visto in faccia perché li ha lasciati nell’ascensore, mi sembra di capire mia zia: sono i fiori più belli che abbia mai visto.
Li ho fotografati e ho mandato la foto a tutte le persone che conosco; mia madre è stata la prima a rispondermi e scorrendo i suoi messaggi era facile capire perché: mentre lei nei giorni scorsi mi mandava il tutorial per fare la tinta ai capelli utilizzando il caffè o quello per metterli in piega usando una fascia in testa, tutte le mie comunicazioni erano state telegrafiche e concrete, sbrigative ben oltre il limite della ruvidezza.
Del resto, le madri esistono per reggere la scontrosità e il malumore che i figli non sanno dove mettere, ma stavolta non era solo mia madre: in ogni chat, tra una cattiva notizia e uno sbrocco, c’erano messaggi di divertita sopravvivenza. Venivano da adolescenti, persone di mezza età, anziani; da persone che non hanno nessuno colpito dal virus e da persone che contro il virus fanno qualcosa ogni giorno, compreso un giovanissimo anestesista che in questo mese ho sentito crescere d’improvviso, mentre lavora in un ospedale di Milano.
Non oso pensare a cosa veda tutto il giorno, ma le rare volte che riusciamo a parlarci al telefono gli spunta a sorpresa l’allegra, disarmante scanzonatezza dei bambini.
Intanto, a mettere tutte insieme le dritte, le ricette, i consigli, i video buffi, le foto di fiori e quelle di dolci falliti (una colomba pasquale che sembra più che altro l’aquila degli Asburgo), pare di stare in un vecchio fumetto di Marjane Satrapi, Taglia e cuci, che racconta le chiacchiere in famiglia, tra la nonna oppiomane e la zia che si è rifatta le tette togliendosi il grasso dal culo e se la ride tra sé ogni volta che l’ignaro marito le bacia il seno.
Non tutti hanno una famiglia bizzarra come quella di Satrapi, ma tutti potremo sorridere, un giorno, sul lato oscuro dei nostri telefoni al tempo del Covid. Mia cugina (un’altra) segnala il correttore migliore da ordinare on line; mia zia (la stessa di prima) invia la foto della ricetta originale con la calligrafia di mia nonna per fare il mandarinetto e il limoncello; un serissimo amico mi confessa di essersi tagliato i capelli da solo e mi chiede suggerimenti per sturare il lavandino.
Ce li ho, ovviamente: succo di limone, bicarbonato e un litro di acqua calda. Il mese scorso non avrei saputo cosa rispondere, ma del resto neanche lui mi avrebbe mai fatto quella domanda: ormai, povero De André, siamo diventati tutti Alice che si fa il whiskey distillando fiori, dove un tempo era tutto Casanova impresentabili ai genitori.
Poco fa ho messo nell’ascensore un pacco di libri per una mia vicina di casa e, tra un albo illustrato per la figlia bambina e un libro su Thoreau, le ho infilato nella busta un sacchetto di radici di curcuma. Conoscendomi, penserà che ci sia finito dentro per sbaglio, che l’abbia messo dentro qualcun altro, e io glielo lascerò credere, perché non so se tra due settimane vorrò trovare in giro tracce della me stessa che in emergenza ha bollito radici fresche e usato l’acqua di cottura degli spinaci per annaffiare il basilico.
Quando tutto sarà finito, faremo finta di niente con eleganza, come gentiluomini, e la prima cosa che si diranno i nostri sguardi, incontrandosi di nuovo, sarà che certe sconvenienti chat non sono mai esistite.