Le feste spezzateQuesta volta apprezzeremo davvero il 25 aprile, il Primo Maggio e il 2 giugno

Le tribù italiane non sono mai state unite nelle celebrazioni, ma le tre date definiscono un quadrilatero nel quale ogni famiglia culturale si riconosce: la cultura cattolica, la scelta democratica, il lavoro come fondamento dei diritti del cittadino, l’orgoglio repubblicano

Per la prima volta nella storia dell’Italia moderna abbiamo visto azzerarsi la festa religiosa della Pasqua e presto vedremo cancellate le tre feste civili che racchiudono il pantheon valoriale del Paese: 25 aprile, Primo Maggio e 2 giugno sfileranno sul calendario come giornate qualsiasi, senza il consueto apparato di raduni, manifestazioni, pubblici discorsi, senza pranzi al mare, grigliate, gite fuori porta. 

Le tribù italiane non sono mai state unite nelle celebrazioni, ma non c’è dubbio che queste scadenze definiscono – oltre l’aspetto puramente ludico – un quadrilatero nel quale ogni famiglia culturale ha potuto trovare un suo riferimento: la cultura cattolica, la scelta democratica, il lavoro come fondamento dei diritti del cittadino, l’orgoglio repubblicano.

Ci siamo tutti lamentati almeno una volta del cerimoniale retorico che avvolge i riti della primavera e della consolidata abitudine a farne strumento delle opposte fazioni. La destra ha chiesto più volte l’abolizione del Primo Maggio. La sinistra ha contestato per decenni le sfilate del 2 giugno. 

Del 25 aprile, manco a parlarne: fino al 2009 e al sorprendente Silvio Berlusconi di Onna, col tricolore al collo, era “il giorno dei comunisti” e amen. E tuttavia, ora che ogni tipo di festa è cancellato dal virus, magari scopriremo che pure quelle che non ci piacciono ci sono necessarie. 

Il rito sancisce l’esistenza di un modello e ci rassicura sulla permanenza dei valori costitutivi della nostra società. Mai come adesso avremmo bisogno di sentirci dire che libertà, democrazia, lavoro dignitoso, rifiuto di ogni assetto oligarchico, restano fondamento della vita italiana. 

Mai come ora la politica dovrebbe pronunciare parole chiare in materia, confermarci che prima o poi si potrà tornare a “fare festa” come abbiamo sempre fatto, anche se con nuove precauzioni. 

E tuttavia non succede. Anzi, si percepisce una sorta di malanimo delle star del momento – i virologi, i tutori della Sanità, i capi dell’emergenza – per la parola “festa”. La festa è stato il grande nemico dei giorni di Pasqua, l’oggetto degli allarmi collettivi dei sindaci e dei governatori, il d-day dei posti di blocco, dei droni e persino degli elicotteri di sorveglianza.

Da Ursula von der Leyen che sconsiglia di prenotare addirittura le vacanze estive fino agli amministratori del litorale romano che invitano a denunciare i non residenti in trasferta, il desiderio di “normalità festiva” dei cittadini è trattato come un impulso criminale. 

Ovunque, si percepisce un sottotesto vagamente punitivo: a lavorare sì, ci tornerete presto – serve all’economia, al Pil, ai bilanci nazionali – ma scordatevi la festa, quella non serve a nessuno, quindi la depenniamo dall’elenco delle attività lecite.

Vorremmo suggerire una riflessione in materia al nostro Comitato di crisi, appena insediato. Di sicuro i problemi del reopen sono molti e le urgenze si accavallano, ma non sottovalutino la portata dello strappo culturale imposto dal virus. La democrazia sospesa, le sue principali ricorrenze cancellate insieme alle conquiste politiche e sociali che evocano, il desiderio e il piacere connessi a quelle date espulsi come sentimenti degenerati, definiscono un modello vagamente talebano che in Italia non può funzionare a lungo. 

La fase due, quella della convivenza con il virus, dovrà tenerne conto e trovare le modalità rassicurare gli italiani, oltreché sulle questioni materiali della sopravvivenza, anche sull’immateriale e importantissimo diritto alla festa.

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