Giustizia giustaBonafede è il rappresentante della cultura del sospetto

L’intervento di Emma Bonino al Senato sulla mozione di sfiducia, respinta, nei confronti del Guardasigilli è un manifesto di cultura liberale, un ingrediente politico assente nella compagine di governo

TIZIANA FABI / AFP

Pubblichiamo l’intervento di Emma Bonino al Senato sulla mozione di sfiducia nei confronti del ministro della giustizia Alfonso Bonafede 

Signor Presidente, colleghi, signor Ministro,

voglio innanzitutto ringraziare tutti coloro che hanno firmato questa mozione. Certo da sola, per ovvie ragioni regolamentari, non avrei potuto presentarla e sono felice che i motivi per cui l’ho proposta siano stati condivisi anche da parlamentari di altri partiti e schieramenti politici.

Non sono particolarmente scaltra nei contatti di Palazzo. Non sono però una marziana e so che nelle discussioni e nei voti, in cui è in gioco la sopravvivenza di un Ministro, finiscono per pesare e prevalere considerazioni che non hanno a che fare direttamente con l’oggetto delle discussioni e della decisione. E così avviene anche oggi.

Considerato tutto quello che ho letto anche sui giornali, e temo anche quello che ascolteremo in quest’Aula, del merito delle questioni che noi proponiamo non si farà quasi parola. Si parlerà sempre e solo di chi da un voto o dall’altro trae giovamento.

A quanti mi diranno che non si può sfiduciare il Ministro per non mettere a rischio il Governo, mi limito a ricordare che oggi si discute di altro e cioè di quale politica per la giustizia serva all’Italia.

È mia profonda convinzione, e inviterei tutti a riflettere su questo, che se la continuità del Governo dovesse significare la continuità della politica della giustizia, signor ministro Bonafede, che lei ha praticato, l’Italia non ne avrebbe nessun giovamento, neanche nei dati della ripresa che vogliamo agganciare. 

Non può essere l’unica risposta, cari colleghi, il fatto che non si può far cadere il Governo. Io sto ponendo una questione di mele e voi mi rispondete: arance. Ma vi sembra una risposta? Ora, è bene, secondo me, che ciascuno affronti il dibattito senza arroganza, senza reticenza e io ci proverò.

La ragione della nostra posizione è rappresentata dalla distanza letteralmente siderale tra quello che noi pensiamo della giustizia e ciò che lei ha dimostrato di pensare. A questo pensiero condiviso da molti colleghi provo a dare voce.

Noi pensiamo che la giustizia sia un’istituzione di garanzia dei diritti dei cittadini, imputati e condannati compresi, non un mezzo di lotta politica, di rivoluzione sociale, né tantomeno di moralizzazione civile.

Non crediamo che la logica dell’emergenza e dell’eccezione ai principi dello stato di diritto possa meritare il nome di giustizia.

Non ci rassegniamo all’idea che la giustizia sia semplicemente la pretesa punitiva dello Stato e che qualunque mezzo possa essere giustificato al servizio di questo fine.

Non ci appartengono l’ipocrisia e la malafede di chi confonde la richiesta di garanzie per tutti con la pretesa di impunità dei colpevoli, facendoli coincidere con tutti i sospettati, e considera il sospetto l’anticamera della verità. 

Ora, signor Ministro, il sospettato è diventato lei e a diffondere il sospetto è stato un magistrato cui lei aveva proposto incarichi importanti in via Arenula, in uno scontro che è tutto interno al partito a cui lei appartiene e di cui dall’esterno possiamo cogliere allusioni e messaggi in codice tutt’altro che trasparenti.

C’è oggi chi le dice delle cose, ritorcendo contro di lei le sue stesse parole. Quattro anni fa lei disse che “se c’è un sospetto, anche chi è pulito deve dimettersi”. Se lo ricorda? No? Peccato. Come tutti i propagatori della cultura del sospetto, non immaginava un giorno di diventarne vittima.

Noi chiediamo le sue dimissioni per la ragione esattamente opposta: non perché lei è sospettato, ma perché non vogliamo un Ministro della giustizia che sia il rappresentante della cultura del sospetto.

Due giorni fa è stato il trentaduesimo anniversario della morte di Enzo Tortora. È stato compagno di lotta straordinario in quella battaglia per la giustizia giusta, che non era un auspicio, ma un programma di riforme concrete per rendere il potere giudiziario coerente con i principi del diritto e la salvaguardia della libertà dei cittadini. Ma non c’è una sola di quelle riforme che lei non abbia avversato, contraddetto e ribaltato secondo i canoni del più estremistico populismo penale.

Ho scelto, d’accordo con alcuni firmatari, di intitolare la mozione a Enzo Tortora, ma non per ragioni simboliche – tantomeno retoriche – quanto per contrapporre con chiarezza e precisione un’idea della giustizia a un’altra.

Non starò a ripetere i punti della mozione che altri colleghi illustreranno meglio di me, ma posso citare la prescrizione, il fine processo mai, il diritto alla difesa, il processo penale, le intercettazioni ampliate a dismisura e le pene detentive.

Se dovessi esprimere il punto in cui la nostra idea di giustizia e la sua più divergono è esattamente nell’idea che la giustizia coincida con le manette, la pena con la galera e la forza del diritto con quella che Leonardo Sciascia chiamava la terribilità.

E non voglio tacere sulle condizioni terribili delle carceri. Ci sono state, riprese anche qui, infinite polemiche sulla scarcerazione di tutti – a quanto pare – i boss detenuti. Signor collega, le comunico, come lei ben sa, che i boss al 41-bis scarcerati sono 3, di cui 2 malati e ultraottantenni.

Dico questo per essere chiari. Le dico anche che nella lista dei 400 detenuti scarcerati di cui si è fatto scandalo, oltre 120 non hanno mai avuto neanche il primo grado di giudizio e altri 200 non hanno mai avuto condanne definitive.

E se voi siete contenti che un giornalista ne spari in prima serata l’elenco (nome e cognome, senza neanche la data di nascita), a me questo fa paura, perché tanti possono essere i casi di omonimia e tante persone possono finire in questo macello mediatico-giudiziario. 

Ieri nelle carceri italiane c’erano ancora 21.000 detenuti in attesa di giudizio, il 40 per cento del totale. Vi sembra possibile? Lei così non governa le carceri, ma paga semplicemente una tangente ideologica al populismo penale, anzi al populismo penitenziario.

E lei sa che tra i condannati in via definitiva più di 17.000 hanno meno di due anni da scontare e 8.000 solo un anno; quindi tra un anno saranno comunque fuori. Io non so, signor Ministro, cosa succederà; lo scopriremo presto.

Sappiamo però che della malattia della giustizia italiana lei è solo un sintomo e non un rimedio; quindi non sarà lei a liberarcene. Al contrario, se rimarrà in via Arenula, contribuirà a renderla cronica, diffondendo come sentimenti prevalenti non la fiducia, ma la paura della giustizia.

In conclusione: dov’è finita la riforma del codice di procedura penale? Mi dica anche dov’è finita la promessa riforma del Consiglio superiore della magistratura, così tanto in prima pagina, e non per buone ragioni, in questi giorni? 

Basta tutto questo, per me, per dire che voglio una giustizia che non faccia paura ai cittadini, ma restituisca loro la fiducia nel giusto processo e nella corretta amministrazione della giustizia. 

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