Il 7 maggio un piccolo gruppo di tassisti milanesi è arrivato davanti ai palazzi di Comune e Regione, ha esposto uno striscione per pochissimi minuti e poi è fuggito. Meglio evitare una multa salata come accaduto il giorno prima ai ristoratori che avevano organizzato un presidio con le sedie piazzate a distanza di sicurezza all’Arco della Pace di Milano. Violando i decreti, ma in modo ragionevole, si pensava. E invece no, la polizia ha identificato, denunciato e multato tutti i partecipanti.
Tra il primo decreto sicurezza Salvini, rimasto intatto con il governo Conte 2, e il divieto di assembramento imposto dalle misure anti-Covid, le manifestazioni e proteste sono di fatto impossibili. Chi ci ha provato, è stato multato. Come i commercianti di Roma che il 4 maggio, approfittando del “ritorno alla libertà” della fase 2, avevano provato a farsi ricevere a Palazzo Chigi. O i parrucchieri di Sanremo, i baristi di Pordenone e gli operai di Genova.
Eppure, prima del lockdown, si parlava del “ritorno delle piazze”. Sindacati e operai avevano riempito di nuovo una piazza simbolica come Santi Apostoli a Roma, e le Sardine avevano occupato ogni angolo di piazza San Giovanni e Piazza Maggiore. Una tendenza partita nel 2019, ribattezzato come l’anno delle rivolte, da Hong Kong al Cile, dal Libano all’Algeria.
Poi è arrivato il virus. E quella parola, assembramento, da evitare a tutti i costi. E così come il resto delle abitudini quotidiane, anche i movimenti e le organizzazioni si sono “ritirati” nel mondo virtuale.
Secondo Lorenzo Pregliasco, sondaggista e cofondatore di Quorum/Youtrend, era inevitabile: «Quasi tutte le forme di partecipazione democratica che si sono consolidate negli ultimi due secoli prevedono un elemento fisico e spaziale, senza non esistono. Penso alle manifestazioni o al voto stesso: se viene ristretta la possibilità di incontrarsi, è naturale che si restringa anche il resto».
Eppure, secondo Pregliasco, l’opinione pubblica non ha ancora misurato la restrizione delle libertà politiche: «Nell’arco della vita quotidiana delle persone le manifestazioni di piazza e anche le elezioni non sono così frequenti, capitano ogni tanto. Le restrizioni di questi diritti sono meno percepite rispetto alle altre, che invece sono entrate in modo prepotente nelle nostre giornate. Per questo, finora, ci sono state poche proteste».
Alcuni, però, hanno provato ad adattarsi alla regola del distanziamento sociale, e sono diventati quasi un simbolo. Come i cittadini di Tel Aviv, che il 19 aprile hanno protestato contro la possibile alleanza tra il leader centrista Benny Gantz e l’attuale primo ministro Benyamin Netanyahu in modo molto creativo: circa duemila persone ferme e rispettose del metro e mezzo di distanza capaci di rendere molto più potente un sit-in che in altri tempi forse non avrebbe nemmeno fatto notizia.
Qualche giorno dopo, il 24 aprile, dopo tre mesi di silenzio centinaia di giovani di Hong Kong hanno manifestato in un centro commerciale. Paradosso della pandemia: tutti indossavano le mascherine, anche i poliziotti arrivati per disperderli, quando l’anno scorso il governo le aveva vietate per poter identificare i manifestanti.
Seguendo l’esempio israeliano, in Italia, il 28 aprile, settanta parlamentari e i consiglieri regionali del Lazio di Fratelli d’Italia si sono «schierati» in piazza Colonna a Roma, di fronte a Palazzo Chigi, per contestare le misure del governo e portare alla luce «il silenzio degli innocenti», gli imprenditori in difficoltà per il lockdown. Qualche foto con la mascherina tricolore, nessuna multa e poco altro.
Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, spiega che «il tema delle libertà collettive è molto delicato, e rischia di essere sottovalutato, un rischio che la democrazia non può accettare. La priorità è permettere la vita di ieri alle condizioni di oggi, e quindi adottare un principio semplice ma fermo: va regolato il come ci incontriamo, non il chi né il perché. Se parliamo delle manifestazioni in pubblico, per esempio, le autorità si devono porre il problema di far rispettare le distanze tra le persone che vi partecipano; in questo senso, è ragionevole che chiedano agli organizzatori di dimostrare che tutte le precauzioni verranno prese. Purtroppo al momento questo dialogo non c’è, e quindi accadono episodi come quello di Milano. Il governo dovrebbe intervenire subito per consentire la libera espressione ai cittadini, mentre finora questo tema è stato sottovalutato».
Per il costituzionalista è impossibile adottare provvedimenti univoci su tutto il territorio, viste le grandi differenze in termini di contagio tra regione e regione, ma è necessario dare delle linee guida: «Le autorità devono basarsi su due principi: quello di leale collaborazione tra Stato e Regioni, e quello di sussidiarietà, che consente di adottare decisioni che tengono conto della situazione specifica di un territorio. In questo senso, i funzionari che possono gestire al meglio la situazione sono i prefetti, deve spettare a loro il bilanciamento quotidiano tra diritto alla salute e libertà collettive. Per adesso è tutto molto confuso, e in assenza di linee guida chiare resta soltanto il buon senso, da parte delle autorità e da parte dei cittadini. Si può riaprire su questa base? Io non credo, anche se gli italiani si sono dimostrati molto consapevoli».
Un protocollo è necessario, anche perché sono molti i motivi di scontro tra governo e parti sociali, senza considerare che la crisi economica, ormai inevitabile, non ha ancora colpito.
L’ultima minaccia di sciopero generale al governo da parte di Cgil, Cisl e Uil risale a fine marzo. Alla fine incrociarono le braccia per qualche ora soltanto i metalmeccanici di Lombardia e Lazio. L’accordo con il governo e Confindustria sui codici Ateco e l’appello del premier Giuseppe Conte al senso di responsabilità disinnescarono lo sciopero: «Al momento non ci sono mobilitazioni in corso», dicono dalla Cgil, dopo un Primo Maggio senza piazze, palchi, bandiere e striscioni.
Più agitato il mondo della scuola, che prima dell’emergenza contestava apertamente la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, e aveva proclamato uno sciopero per il 6 marzo poi ritirato, causa pandemia. Ma i rapporti sono rimasti tesi, soprattutto ora che non si intravede un programma strutturale per il ritorno in classe né degli alunni né dei precari in attesa del concorso annunciato.
Il 4 maggio i sindacati della scuola hanno tenuto una conferenza stampa unitaria virtuale con 138 partecipanti. E per il 13 maggio sono previste assemblee in videoconferenza per organizzarsi e chiedere un confronto alla ministra.
Chi era precario prima, in attesa del rinnovo di contratti o stabilizzazioni, ha continuato a chiedere il rispetto dei propri diritti. I rider delle consegne a domicilio, tra i pochi a popolare le strade delle città durante il lockdown, hanno protestato e ottenuto con una sentenza del Tribunale di Firenze il riconoscimento del diritto ai dispositivi di protezione.
E il primo maggio hanno anche lanciato una piattaforma sindacale nazionale. Gli operatori dei call center hanno scioperato da Nord a Sud chiedendo di poter lavorare in smart working. E da qualche giorno, i dipendenti di Almaviva di Milano e Palermo sono in stato di agitazione dopo che Sky ha ricordato che il 30 giugno scadrà il loro contratto d’appalto.
Ma in piazza, davanti agli stabilimenti, non si vede nessuno. In attesa di capire quando potranno tornare a lavorare, tra i più attivi in Rete ci sono i lavoratori dello spettacolo con l’hashtag #seiconnoi, che hanno lanciato svariate petizioni con la raccolta di migliaia di firme.
E pure le Sardine, protagoniste delle piazze italiane del mondo pre-Covid, si sono dovute riadattare. «Ci è mancato l’elemento principale, come se togliessi l’acqua ai pesci rossi», dice Jasmine Cristallo, coordinatrice calabrese del movimento. «Siamo nati perché c’era il desiderio di riportare i corpi in piazza. È evidente che ora abbiamo un problema, ma siamo stati comunque molto operosi in questo periodo».
Saltati diversi appuntamenti, incluso l’incontro nazionale a Scampia previsto per il 14 e 15 marzo in vista delle elezioni regionali (saltate anche quelle), le Sardine sono tornate online, sui social, nelle chat, dove erano nate. E anche in tv. «Ci siamo adattati alla nuova dinamica, come tutti, confrontandoci con le video call», racconta Cristallo. «Abbiamo lanciato una campagna solidale di raccolta fondi per la Protezione Civile e consegnato 10mila mascherine alla Lombardia, sui territori abbiamo organizzato la consegna della spesa alimentare e dei farmaci e gruppi d’ascolto».
Il momento più complesso da gestire arriverà quando si tornerà a votare. Nel 2020 era previsto il referendum costituzionale, rinviato sine die e, secondo il decreto “Cura Italia” da organizzare entro il 22 novembre. Al voto sono chiamate 6 regioni, Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto, rinviate in una domenica compresa tra il 6 settembre e il primo novembre, e 1.145 comuni, anch’essi rinviati a una domenica compresa tra il 20 settembre e il 13 dicembre. Inoltre, in 147 comuni, i cosiddetti superiori, è possibile il ballottaggio, così come in Toscana.
Questo pone una serie di problemi concreti: le campagne elettorali saranno molto diverse, difficile vedere comizi partecipati, strette di mano, iniziative porta a porta. Sarà anche complicato immaginare un solo giorno per votare: è possibile smaltire le fisiologiche code in meno di 24 ore? Cosa accade se tra il primo e secondo turno i numeri del contagio aumentano?
Il governo francese, dopo aver deciso di permettere lo svolgimento del primo turno delle elezioni amministrative è stato costretto a rinviare i ballottaggi a data da destinarsi e a permettere l’insediamento dei sindaci già eletti, creando un’attesa che avrà un effetto inevitabile sull’esito elettorale.
Senza contare lo squilibrio territoriale: «I dati del contagio sono asimmetrici sul territorio, e sappiamo anche che la malattia colpisce i più anziani e meno i più giovani: questo può avere pesanti ripercussioni sull’affluenza e quindi sul risultato finale, sono problemi che vanno tenuti presente quando torneremo a votare», spiega Lorenzo Pregliasco.
Secondo Francesco Clementi bisognerà adattarsi. Ciò che è importante è evitare che il governo decida già da ora se rinviare nuovamente le elezioni adesso previste in autunno: «Qualora non si potesse tornare a votare a causa di una seconda ondata di contagi, il governo dovrà nuovamente confrontarsi con le regioni e con il Parlamento. Non sarebbe accettabile una decisione presa oggi, in sede di conversione del primo decreto di rinvio delle elezioni, è una questione di rispetto tra i poteri dello Stato. Se ci sarà bisogno, in autunno, si emanerà un nuovo decreto».