Nel giugno 2013 ho comprato un tavolino da Ikea. Ho discrete doti di preveggenza, ma non avevo previsto che, sette anni dopo, quel tavolino sarebbe diventato un simbolo della pandemia e del suo mancato indotto intellettuale.
Da mesi, la pubblicistica della pandemia è fatta di gente che fa cose mai fatte, dalla pizza in casa ai corsi on line (un posto in cui facevo pilates continua a raccomandarmi le proprie lezioni su Zoom: quindi c’è gente che si mette a far sballonzolare le trippe davanti al monitor cercando di smuovere quel maledetto muscolo traverso che secondo le insegnanti di pilates è il segreto per avere un corpo da ballerina e secondo quasi tutte le allieve è una leggenda metropolitana).
Poi c’è una nicchia di gente che dice d’essere troppo angosciata per fare alcunché. Sono perlopiù scrittori (avrete notato che esiste il blocco dello scrittore ma non quello dello zappatore: nessuno che si guadagni da vivere con l’agricoltura è mai troppo angosciato per fare il proprio lavoro).
Gli scrittori che «non riesco a scrivere» sono stati da subito bullizzati sui social da chi ricordava loro che, in piena quarantena da peste, Shakespeare scrisse il Re Lear. Non si sa se sia vero: il povero William non aveva Twitter su cui annotare «oggi ho finito il primo atto», ma la prima rappresentazione del Re Lear fu nel dicembre del 1606, e quell’estate c’era in effetti stata un’epidemia di peste.
(Nota a margine: tra il 1603 e il 1613 – gli anni, oltre che del Lear, di robetta come Macbeth, Otello, Antonio e Cleopatra, La Tempesta, l’Enrico VIII, e un’altra decina di cosette che non sto a elencare – la peste fece chiudere i teatri londinesi per un totale di 78 mesi. Fanno sei anni e mezzo, e non risulta neanche un consolatorio «i nostri artisti che ci fanno tanto divertire» da parte di re Giacomo I: insomma, amici teatranti italiani, si stava peggio quando si stava peggio).
Il Re Lear scritto in quarantena, dicevo, e la nostra inadeguatezza. L’altro giorno qualcuno, un critico americano, ha cambiato esempio. Twittando «Tra il marzo e il maggio 1940, Camus scrisse l’intera prima stesura dello Straniero. E voi cos’avete fatto in queste otto settimane?». Rincarando, subito dopo: «Oltretutto non aveva rendite patrimoniali, né amici ricchi, né agganci, e aveva la tisi».
Siccome siamo l’epoca più determinata a compiangersi e a dichiarare senza mettersi a ridere che nessuno mai ha sofferto quanto noi, tra le risposte in pochi accusavano il colpo (lo sceneggiatore di Billions gli ha dato del mostro, a ricordare quel che si può fare in periodi di difficoltà, «mentre io fatico a scrivere una paginetta»); quasi tutti rispondevano seriosi «sì ma Camus non aveva i figli a casa con le lezioni da seguire su Zoom».
I figli sono la grande scusa di chi non ha imparato a fare la pizza, o il pizzo a tombolo, o non ha scritto Morte di un commesso viaggiatore (d’accordo, non c’era la peste, ma Arthur Miller la scrisse in cinque giorni, io cinque giorni li passo a decidere come chiamare il file di testo in cui poi forse scriverò dieci righe nei successivi sei mesi).
Persino l’autore di Black Mirror, Charlie Brooker, che giovedì sera su Bbc 2 ha montato un’ora di feroce presa per il culo dei tic da pandemia, uguali tra politici e giornalisti e cittadini di tutto il mondo, non ha resistito e ci ha messo una scenetta dei figli che lo assalgono mentre è in conference call, con tanto d’apparizione della moglie esasperata. (Il programma si chiama Antiviral Wipe, e sarebbe cosa buona e giusta che qualche emittente italiana lo comprasse e ce lo facesse vedere).
Ma per fortuna c’è Corrado Guzzanti. Quel tavolino Ikea l’ho lasciato nell’ingresso, ben avvolto nel cellophane, fin verso il 2017; poi l’ho spostato in camera da letto, sempre nel suo bravo cellophane; adesso è appoggiato al termosifone del salotto, ancora in attesa d’essere montato.
Venerdì sera Corrado è comparso a Propaganda, su La7, facendo la cosa che gli riesce meglio: il duetto tra il giovane e il vecchio, in cui entrambi sono imbecilli ma il giovane ha l’aggravante d’essere giovane. Questa volta il giovane era Aniene, dio minore che parla col padre degli dèi.
E il padre gli rinfaccia «que’e mensole Ikea d’un metro e mezzo», lasciate in mezzo al salotto «co’ tutto er cartone dicendo “Domani le monto, domani le monto”». Due settimane, cialtroneggia Aniene; due anni, lo rimbecca il padre ingiungendogli di montarle almeno nella fase due. Un altro che neanche nella fase uno ha fatto ciò che aveva rimandato tutta la vita.
Mi sono sentita meno sola, e ho pensato che sarebbe stato facile sentirmi migliore: non serve scrivere un’opera immortale, basta che monti il tavolino. Nel cellophane, però, non c’erano più le viti, estratte in un precedente momento di buona volontà, forse addirittura antecedente alla fase uno, e ora disperse chissà in che anfratto di casa. Non se ne fa niente neanche nella fase due. E non abbiamo, né io né Aniene, neppure la scusa delle lezioni dei figli da seguire su Zoom.