L’antidotoLa globalizzazione è superata, ma quello che c’è dopo è peggio

L’Economist scrive che il coronavirus sta estremizzando le politiche di molti paesi, spingendoli al protezionismo e complicando la risoluzione di problemi condivisi, come la ricerca di un vaccino e la ripresa economica. Su Linkiesta, da lunedì, un gran dibattito sul futuro del nostro sistema

Liselotte Sabroe / Ritzau Scanpix / AFP

La crisi del coronavirus ci costringe a ripensare i termini della globalizzazione e le relazioni internazionali, a tutti i livelli. Poche settimane fa il presidente francese Macron aveva detto al Financial Times di vedere questa fase «come un evento che cambierà la natura della globalizzazione e la struttura del capitalismo internazionale».

Ed è quanto sta accadendo negli ultimi giorni. Già prima della diffusione del virus la globalizzazione era messa in discussione da più attori sul palcoscenico internazionale: lo testimonia la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’ascesa di partiti sovranisti in aperto contrasto con l’economia globalizzata, il fascino crescente di autocrati come Vladimir Putin, Viktor Orbàn e Xi Jinping nelle società occidentali.

L’ultimo numero dell’Economist, però, sottolinea come il coronavirus stia estremizzando le politiche di molti paesi: «C’è una nuova propensione all’autosufficienza e alla chiusura delle frontiere in tutto il mondo, al punto che circa il 90% della popolazione mondiale vive in stati con le frontiere chiuse», scrive il magazine.

Una causa di questa trasformazione potrebbe essere la mancanza di leadership da parte degli Stati Uniti in una fase così delicata. Nonostante alcuni gesti di cooperazione fatti durante la pandemia – ad esempio i prestiti della Federal Reserve ad altre banche centrali – l’America non sembra voler avere un ruolo guida a livello mondiale, una tendenza cominciata prima di Donald Trump ma in atto già durante la presidenza Obama e non nuova per Washington, tradizionalmente isolazionista fino alla Seconda guerra mondiale.

In effetti, molti temono che il mondo possa tornare a essere molto simile a quello tra le due guerre: aumento delle disuguaglianze e delle tensioni sociali, crisi del multilateralismo, competizione tra Stati più che cooperazione, rischio maggiore di incidenti diplomatici, tendenza all’isolazionismo e alla chiusura. Se la globalizzazione che conosciamo è anche frutto della politica estera e dell’egemonia americana, un suo radicale cambio in senso isolazionista non può che portare conseguenze per tutti gli altri Stati.

Il presidente Trump, in una recente intervista a Fox Business, ha detto esplicitamente che la politica internazionale sta entrando in una nuova fase: «Questa pandemia dimostra che l’era della globalizzazione è finita».

Le parole del presidente americano si riflettono in alcune proposte messe sul tavolo dalla sua Amministrazione. Come ad esempio l’idea di frenare ulteriormente l’immigrazione per aiutare i lavoratori americani che stanno perdendo il lavoro: sono circa 36 milioni dall’inizio della crisi, 3 solo nell’ultima settimana, secondo le stime del dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti.

In questa fase sono molti gli Stati che traducono il bisogno di proteggere i propri cittadini con politiche protezionistiche: l’India ha annunciato, con il primo ministro Narendra Modi, l’inizio di una nuova era di autosufficienza economica; il Giappone ha offerto incentivi alle aziende che rimpatriano le fabbriche, lo stesso presidente francese Emmanuel Macron ha più volte detto che la Francia deve ritrovare sovranità economica, declinata in maggiore protezionismo a livello europeo.

«La conseguenza di tutto questo – spiega l’Economist – è che la circolazione di persone, merci e capitali ha subito un calo verticale, probabilmente senza precedenti».

Il numero di passeggeri dell’aeroporto di Heathrow, a Londra, è diminuito del 97 per cento rispetto all’anno scorso; le esportazioni di auto messicane sono diminuite del 90 per cento nel mese di aprile; e oltre un quinto delle spedizioni transpacifiche di container a maggio è stato cancellato. Secondo alcune stime quest’anno il commercio mondiale potrebbe ridursi di una quota tra il 10 e il 30 per cento.

Sono ancora molto attivi mercati come quello del settore digitale, «ma la sua portata è ancora modesta, le vendite all’estero di Amazon, Apple, Facebook e Microsoft equivalgono appena al 1,3 per cento delle esportazioni mondiali», spiega l’Economist.

Saranno rivisti al ribasso anche i movimenti di capitali. La Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo prevede che la crisi frenerà i flussi di investimenti esteri diretti almeno del 30 per cento. Stesso discorso per le rimesse: la Banca mondiale stima che diminuiranno del 20 per cento; inoltre il World Trade Organization (Wto), l’organizzazione mondiale del commercio, ritiene che gli scambi commerciali potrebbero diminuire di un terzo su scala globale.

Tutto questo sarebbe conseguenza del calo della domanda provocato dalle misure protezionistiche dei singoli paesi. Ma non sarà un sistema commerciale bloccato da rigidi controlli alle frontiere a rendere il mondo più sicuro. Per rendere più resistente una catena di produzione del valore è necessario espanderla, diversificarla, non frenare il processo.

Inoltre, un mondo diviso, un mondo che non dialoga, renderà più difficile la risoluzione di quei problemi globali che possono essere risolti soltanto con una solida collaborazione, inclusa la ricerca di un vaccino, la ripresa economica, il cambiamento climatico.

L’avvertimento dell’Economist non potrebbe essere più chiaro: «Quando l’economia sarà riaperta del tutto le attività si rimetteranno in moto, ma non aspettatevi un ritorno alla spensieratezza della realtà precedente. La globalizzazione è superata, ma quello che c’è dopo sarà peggio».

(a partire da lunedì, Linkiesta ospiterà un dibattito a più voci sul tema ”che cosa c’è dopo la globalizzazione”)

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