Il dibattito de LinkiestaLa globalizzazione si riprenderà, alcuni Stati nazionali forse no

Non è il virus a essere stato la causa della crisi, né il mondo interconnesso. Sono la stupidità, l’incompetenza e l’irresponsabilità dei politici ad aver seminato morte e devastazione economica. La reazione dipenderà dai singoli sistemi-paese, ma il futuro sarà delle global communities

JUSTIN SULLIVAN / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP

Se la globalizzazione ha preso un raffreddore, gli stati nazionali hanno beccato il Covid-19. Mentre la prima ha subito una temporanea – e, come vedremo, apparente – battuta di arresto, i secondi si sono caricati di debiti per i prossimi 20 anni. Il commercio internazionale è un flusso e riprenderà quanto prima ai livelli precedenti la crisi, con un rimbalzo nel primo semestre del 2021 che compenserà in buona parte il terreno perduto.

Il debito sovrano, invece, è uno stock, e incorporerà in modo permanente il costo di mitigazione del doppio shock, di offerta e domanda, indotto dalla pessima gestione della crisi da parte di molte nazioni. Secondo le stime del FMI, un’eventuale seconda ondata pandemica peggiorerebbe da 10 a 20 punti il rapporto debito/Pil dei paesi sviluppati (vedi grafico. Fonte: IMF, Aprile 2020).

Va ribadito con estrema chiarezza: non è il virus a essere stato la causa della crisi. Sono la stupidità, l’incompetenza e l’irresponsabilità dei politici, nonché degli elettori che li hanno scelti, ad aver seminato morte e devastazione economica. Il mondo, nel suo complesso, ha visto tragedie sanitarie peggiori. Alcune nazioni sono tuttavia di fronte al più grande shock economico della loro storia recente, in tempo di pace. Ma l’impatto negativo della crisi, umano e finanziario, ha livelli molto diversi tra paesi: ciò non è dipeso dalla virulenza del virus, ma dal diverso modello sociale e istituzionale delle singole nazioni.

Dal punto di vista economico e tecnologico, l’efficace risposta al virus non aveva soglie inarrivabili: bastavano un prudente distanziamento sociale, un minimo di intelligence locale per il contact tracing, e qualche laboratorio di biologia molecolare per fare i test: le solite “3T” (test, trace and treat), insomma.

Non esattamente “rocket science”, per dirla all’americana. In assenza di cure mediche specifiche, i danni economici delle epidemie si limitano con strumenti disponibili a quasi tutte le nazioni sviluppate: mascherine di stoffa, termometri e smartphone. La differenza la fa l’organizzazione sociale.

Taiwan non è la nazione più ricca del globo. Ha semplicemente reagito alle prime notizie del virus in meno di 48 ore, avendo preparato da tempo un piano per le emergenze epidemiche, con centinaia di misure tempestive e un coordinamento esemplare di autorità pubbliche, imprese e cittadini.

Risultato: al 21 maggio, un totale di 7 decessi (sette!) su 441 casi rilevati dall’inizio dell’epidemia (la grande maggioranza in arrivo dall’estero), con zero giorni di lockdown nazionale. Il governo di Taipei prevede un Pil 2020 in crescita del 1.9%; gli analisti finanziari sono più pessimisti, e si aspettano un decremento del 1.2%, che comunque è una frazione del crollo stimato per Europa e Stati Uniti.

Probabilmente gli effetti sul commercio estero a causa del disastro dei partner commerciali trascineranno verso il basso il risultato di Taiwan, ma la risposta del governo e dei cittadini è stata indubbiamente encomiabile ed efficace. Se gli altri Paesi avessero fatto altrettanto, l’impatto del coronavirus non sarebbe stato molto diverso da quello della SARS del 2003, ovvero un piccolo, momentaneo scompenso del battito regolare dell’economia mondiale.

Dopo la stagione del Global Trade, si apre l’era delle Global Communities

Il commercio globale di beni è crollato verticalmente con la pandemia. Ma ciò è dipeso dall’inefficienza del sistema di prevenzione sanitaria dei singoli stati e dalla mancanza di integrazione logistica e tecnologica, non da intrinseche ragioni economiche di mutata divisione internazionale del lavoro, né da una repentina riconfigurazione delle catene globali del valore. Gli scambi commerciali si sono temporaneamente interrotti a causa del mancato coordinamento internazionale dei processi di prevenzione delle epidemia.

Il problema della globalizzazione non è di essere stata eccessiva, ma semmai di essersi rivelata insufficiente. Sono le politiche sanitarie nazionali ad aver fallito clamorosamente, come ben dimostrano le scelte dei singoli paesi che hanno contenuto con tempestività e successo l’epidemia. La globalizzazione e la collaborazione internazionale, con gli aiuti finanziari e le forniture sanitarie di emergenza, è invero ciò che ha consentito di limitare i danni, a loro volta largamente determinati da politici nazionali diversamente incapaci.

Rimossa – come è lecito sperare – l’inefficienza sanitaria, rimangono tutte le ragioni economiche per la specializzazione, per i vantaggi comparati ricardiani e per far ripartire il commercio internazionale. Stavolta, tuttavia, saranno i servizi a guidare lo scambio delle merci, e non più il contrario.

Mentre il commercio internazionale di beni ha subito negli ultimi anni sbalzi dovuti alle guerre doganali, scatenate dal neo-isolazionismo americano ma alimentate nel tempo dall’espansionismo autoritario cinese e dalle sue permanenti asimmetrie legali ed ambientali, il commercio di servizi è sempre cresciuto. La pandemia ha fermato viaggi e turismo, ma non ha fermato – anzi ha accelerato – il mercato globale degli “intangibles”, fatto di contenuti, dati, software, diritti di proprietà intellettuale. A maggio 2020 Zoom, l’azienda che fornisce servizi di videoconferenza, ha una capitalizzazione superiore a quella delle prime 7 linee aeree mondiali combinate.

Ormai da alcuni anni, infatti il contributo alla crescita del Pil mondiale che deriva dagli investimenti in intangibles ha superato quello dei beni tangibili. La digitalizzazione, fattore di globalizzazione per eccellenza, ha subito una fortissima accelerazione proprio in seguito alla pandemia. E gli effetti microeconomici non si faranno attendere.

La quota di valore aggiunto che si sposta sul software è infatti sempre più grande.

Il commercio dei beni va ormai collegato inscindibilmente a quello dei servizi. E il valore di beni sempre più digitalmente connessi (lo sono ormai quasi tutti i beni strumentali e i beni di consumo durevole) è sempre meno nell’hardware e sempre più nel software.

La tassazione del software determinerà il nuovo scontro geopolitico sul terreno fiscale, il cui equilibrio tendenziale converge verso una corporate tax ad aliquote minime, spostando gran parte della tassazione sulle persone fisiche e sui consumi, e compensando con opportuni trasferimenti gli effetti regressivi dell’imposta sul valore aggiunto.

La compliance fiscale sull’Iva, che diventerà sempre più critica, può non essere difficile da ottenere, in un contesto di rapida espansione dei pagamenti elettronici: basterà disincentivare il contante con adeguate commissioni di transazione, rendendolo tracciabile con semplici lettori ottici.

L’affermarsi di cybercurrencies globali, che sembra ancora più inevitabile dopo la massiccia dose di nuovo debito pubblico denominato in fiat money nazionale finito nei bilanci delle principali banche centrali, non farà altro che accelerare la spirale negativa dei modelli monetari nazionali. Il perimetro della globalizzazione economica è infatti il perimetro della sua moneta di riferimento.

Se quest’ultima cambia, anche l’economia che ne dipende muta con essa. E non è ragionevole attendersi che evolva verso ulteriore frammentazione nazionale, ma che semmai adotti standard monetari internazionali, anche sotto forma di future stablecoin, basate su panieri di asset internazionali.

Ma oltre ad aver modificato le basi del capitale, facendo esplodere il debito, il coronavirus sta cambiando anche il lavoro. La pandemia ha invero trasformato molto più profondamente e strutturalmente la divisione del lavoro locale, rispetto a quella internazionale. Il modello organizzativo dello smart working avrà effetti profondi sulla natura dei contratti di lavoro, favorendo l’evoluzione del rapporto tra lavoratore e impresa da un’obbligazione di mezzi a un’obbligazione di risultati.

Mentre il primo caso è compatibile con il mantenimento di un modello organizzativo tradizionale delle imprese, con l’appropriazione completa del valore del lavoro da parte del capitale, nel secondo caso la natura dei contratti favorisce l’evoluzione verso un modello di multi-homing professionale, con un portafoglio di opzioni professionali che complementa o in molti casi addirittura sostituisce l’impego fisso.

Nell’era dello smart working, la “gig economy” da patologica diventa paradigmatica. Quando i costi di coordinamento si allineano ai costi di transazione, i confini dell’impresa divento più sfumati, e si spostano più velocemente. Il mercato diventa territorio di responsabilità organizzativa, l’organizzazione diventa luogo di transazioni di mercato. I clienti e i colleghi sono alla stessa distanza organizzativa: just a click away, appunto.

La ormai estesa intermediazione digitale dei processi produttivi consente di disaggregare logicamente, temporalmente e spazialmente lavoro materiale e lavoro intellettuale, affidando il primo sempre più a robot e il secondo al monitoraggio umano, che tuttavia può essere remoto e asincrono. Come nella famosa vignetta, nelle fabbriche del futuro ci saranno solo un uomo e un cane: l’uomo a monitorare i computer, il cane a sorvegliare l’uomo, affinché non faccia disastri toccando un tasto qualsiasi.

L’espandersi dell’orario di lavoro e di apertura degli esercizi commerciali e dei servizi alla persona, anch’esso amplificato e accelerato dal Covid-19, spalmerà su orari più estesi i vantaggi comparati del modello metropolitano.

La distribuzione degli orari indotta dallo smart working di massa favorirà moltissimo le città, che sono dotate di tutte le infrastrutture per attrarre talenti e capitali ma che costituiscono tuttora un clamoroso esempio di inefficienza logistica. La miopia organizzativa del tradizionale modello di coordinamento delle imprese, infatti, ha finora costretto i lavoratori a onde sincronizzate di mobilità, quando potrebbe tranquillamente distribuire i flussi logistici su diversi momenti del giorno invece che concentrare il traffico di merci e persone nelle medesime ore di punta.

Questo consentirebbe di decongestionare la capacità produttiva del trasporto pubblico, oltre a rendere molto più efficiente lo sharing di mezzi privati. La metropoli di stile newyorkese, the City that never sleeps, diventa modello della nuova economia “around the clock”, dove le code sono mitigate da un maggiore livello di coordinamento sociale, favorito dal massiccio uso di tecnologie di sincronizzazione dell’accesso ai servizi comuni, e gli inconvenienti dei fusi orari sono mitigati dalla flessibilità delle videoconferenze domestiche. I social media hanno creato le basi, il coronavirus ha accelerato il processo.

Lo stato nazionale rischia quindi una sempre più profonda crisi fiscale per un eccesso di selezione sociale avversa, in quanto dovrà prendersi cura dei poveri aumentando le tasse ai ceti produttivi, ma così facendo spingerà le global communities professionali a rifugiarsi nelle nuove città-stato, e a cercare status fiscali che le proteggano da una spoliazione eccessiva.

L’offerta di welfare statale non riuscirà a garantire la necessaria copertura previdenziale alle global communities professionali, che quindi si rivolgeranno ad altre forme di assicurazione e privilegeranno modalità di risparmio finanziario non denominate in moneta nazionale, la quale rischia di essere sempre più esposta a rischi di signoraggio e/o di fiammate inflazionistiche locali.

La reazione luddista e protezionista alle inevitabili contraddizioni della globalizzazione è infatti finita nel cul de sac del sovranismo straccione e inconcludente. Le pulsioni antiscientifiche, il populismo autarchico, la xenofobia fomentata da politici irresponsabili sono ormai poveri sovrani-fantoccio, nudi di fronte alla loro inconsistenza. Le global communities professionali, organizzate sempre meno per nazione e per impresa, e sempre più per legami urbani e digitali, si candidano a essere gli attori della nuova fase geopolitica dei prossimi decenni. Vedremo se la loro ritrovata leadership saprà tradursi, socialmente ed economicamente, in un nuovo equilibrio sostenibile.

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