Il dibattito de LinkiestaSenza globalizzazione non potremmo battere il coronavirus

La lotta alla malattia è il primo evento interamente mondiale della nostra storia, che stiamo vivendo e combattendo insieme: copiamo lockdown e protocolli già utilizzati altrove e facciamo tesoro degli errori degli altri. Alla fine avremo una cura o un vaccino a tempo di record grazie agli sforzi collettivi della comunità internazionale

Nel corso del lockdown, ho fatto la mia prima lezione online, per il master di giornalismo di Torino. L’argomento doveva essere il ruolo del corrispondente all’estero. Un tema da corso di paleontologia, ho avvertito subito gli studenti, non solo per via dell’estinzione dei tirannosauri del giornalismo cartaceo, spesati da testate ed editori mastodontici anche durante il sonno, ma perché la stessa distinzione tra “estero” e “interno”, il “nostro” e il “loro” era venuta meno.

La pandemia di Covid-19 non aveva fatto che renderlo più evidente, diventando una pandemia anche mediatica. Come avremmo potuto distinguere per categorie il giornalismo che si occupava di coronavirus? Era un giornalismo “interno”?

Era “internazionale”? Era un giornalismo “medico”? Era data journalism? Era pura cronaca, la sana vecchia cronaca di un tempo? Era il trionfo delle tecnologie multimediali e delle infografiche? Era un esercizio di scrittura dedicato al lifestyle?

La risposta era sì, a tutte queste domande. Quello che nei due decenni precedenti succedeva soltanto per i grandi fatti come l’11 settembre o lo tsunami – quando tutto il mondo seguiva con il fiato sospeso la stessa storia, condivideva le stesse immagini, sussultava sincronizzato nello stesso momento – ai tempi del coronavirus è diventato un fenomeno cronico.

Se i primi reportage da Wuhan venivano ancora letti con la curiosità che si poteva avere verso qualcosa di esotico – quando dicevamo ancora  «solo i cinesi possono farsi confinare in casa senza fiatare» – da quando il virus si è palesato in Europa, il concetto di “estero” e “locale” si è definitivamente fuso in qualcosa di unico e unificato. Tutto il mondo ha seguito con il fiato sospeso la tragedia di Bergamo.

Tutto il mondo ha applicato le stesse regole: avremmo potuto trovarci in lockdown a New York come a Codogno o Mumbai, seguendo più o meno le stesse regole, e le poche nazioni che per capriccio libertario (Svezia), super organizzazione (Corea del Sud) o negazionismo dell’autocrate al comando (dalla Bielorussia al Brasile) si rifiutavano di aderire alla misura unica della quarantena diventavano oggetto di attenzione e/o critica globale.

Siamo diventati tutti virologi seguendo lo stesso corso globale online, e le notizie di un test pubblicate su un sito cinese o australiano rimbalzavano immediatamente in tutto il mondo. Abbiamo cantato sui balconi, fatto yoga con il telefonino, parlato con i congiunti via Skype e lavorato via Zoom, tutti quanti, miliardi di persone, contemporaneamente.

Abbiamo fatto nostra nello spazio di un secondo l’esperienza altrui, dalle app di tracciamento di Seul e Singapore ai protocolli farmaceutici sugli antimalarici o i trombolitici. Abbiamo avuto perfino le stesse bufale su Bill Gates e il 5G, e gli stessi meme sui social, oltre che ovviamente gli stessi filmati ossessivi sulla prevenzione.

Abbiamo tutti cercato mascherine e guanti, tamponi e test, partecipato alle stesse raccolte di beneficenza per i medici in prima linea, e l’unica cosa nella quale abbiamo mostrato fortissime differenze nazionali sono stati i beni spariti per primi nell’accaparramento pre-lockdown: lievito per gli italiani, grano saraceno per i russi, carta igienica per gli anglosassoni.

È possibile e probabile che la globalizzazione, come la conosciamo ora, subisca mutamenti e rallentamenti nel campo produttivo: del resto, già prima della pandemia si erano avuti cicli altalenanti nella delocalizzazione della produzione, ad esempio, dettati dalle fluttuazioni del corso del petrolio e quindi dei trasporti.

È possibile e probabile che qualche governo e/o partito cavalchi il grande spavento globale per suggerire di rifugiarsi nei rassicuranti antri nazionali. È possibile e anzi molto probabile che gli spostamenti di persone e merci restino per mesi se non anni complicati e rallentati dalle nuove misure di sicurezza, dal collasso di molte economie e dalla contrazione globale della domanda, oltre che dalle difficoltà enormi del settore dei trasporti.

Diversi esperti di economia e politica hanno già raccontato le proprie ipotesi, anche sulle pagine de Linkiesta. Ma la globalizzazione non è sinonimo né di delocalizzazione della produzione, né dei viaggi in giro per il mondo, anche se queste sono due sue componenti essenziali.

La globalizzazione è una narrazione condivisa, per cui da Madagascar a Vancouver abbiamo le stesse ambizioni, gli stessi sogni, le stesse paure e gli stessi eroi, gli stessi simboli e le stesse parole d’ordine, che siano le t-shirt di Messi o l’ecologismo di Greta.

È informazione trasmessa e vissuta in tempo reale, dove alla fine lo stupore per la diversità di chi non è come noi viene sostituito dall’empatia e dalla condivisione. Non è una conquista indistruttibile – abbiamo visto troppo spesso utopie venire intossicate da nazionalismi e campanilismi fratricidi – ma la visione globale del mondo ormai è entrata nei geni di milioni di persone.

Anche se i viaggi intercontinentali torneranno a essere un lusso – come in quell’epoca dei nostri padri e nonni che, prima di prendere l’aereo, si mettevano giacca e cravatta, perché gli aeroporti erano club di élite privilegiate – non sarà per sempre, perché una delle grandi conquiste della globalizzazione è stata proprio quella di rendere il viaggio, per turismo o lavoro, una possibilità prima riservata alle aristocrazie. Abbiamo chiuso le frontiere tra Stati, è vero, ma l’abbiamo fatto con rammarico invece che con sollievo.

La notizia della morte della globalizzazione è molto esagerata, ha scritto su Linkiesta Emma Bonino. Nella citazione di Mark Twain la parola chiave era “esagerata”, ma nel mondo del fake globale diventa “notizia”. Le narrazioni create da varie forze politiche, e amplificate dalle nostre paure e dalla fame dei media per i conflitti e i titoli catastrofici, ci fanno immaginare un mondo più diviso di prima, tra le faide interne all’Unione Europea e lo scontro Usa-Cina.

La realtà, meno visibile, è che si è trattato dell’epidemia più globale della storia. I virus sono sempre stati globali, ma se un tempo impiegavano anni a viaggiare con carovane, mercenari e marinai, oggi prendono l’aereo. Ma, per la prima volta nella storia, anche la risposta è stata globale. Abbiamo risparmiato mesi se non anni a organizzare la risposta all’epidemia, copiandoci i lockdown a vicenda, stilando protocolli e mandando aiuti. 

Oltre alle banche dati aperte dove i ricercatori di tutto il mondo scaricano le loro idee sul virus in tempo reale, ci sono media e social che hanno collegato medici di tutto il mondo, permettendo a scoperte, intuizioni ed errori di venire divulgati, discussi e diffusi per salvare vite, aprendo a tutti l’accesso alle informazioni.

E rendendo non impossibile l’invenzione e il collaudo del vaccino e/o della terapia definitiva contro il Covid-19 in qualunque Paese, non necessariamente gli Stati Uniti o la Cina, ma anche Israele, Corea del Sud o Italia, in uno sforzo globale che rompe proprio quei monopoli che molti critici della globalizzazione hanno indicato come uno dei suoi effetti collaterali più rischiosi. 

Può darsi che per un periodo viaggeremo o commerceremo di meno. Ma la pandemia-2020 è stata il primo evento interamente globale della nostra storia, più delle Olimpiadi o dell’incendio di Notre-Dame. Non l’abbiamo soltanto visto insieme, l’abbiamo vissuto insieme, co-partecipato e com-passionato, sperimentando per la prima volta sulla nostra pelle e non solo negli slogan il fatto di coabitare lo stesso mondo. Provare a riportarlo alla condizione precedente sarebbe come tentare di trasformare una zuppa di pesce di nuovo in un acquario.