Non bisogna smettere di rivendicare la parità dei diritti tra uomini e donne, e la rivendicazione non può essere unilaterale, cioè riguardare solo le donne, ma deve o dovrebbe coinvolgerci tutti.
Sono cose di buon senso, che però trascinate forzatamente sul piano letterario possono ottenere conseguenze nefaste. C’è una forma di moralismo strisciante foraggiato dalla cronaca – per esempio, durante il lockdown si è consumato uno spaventoso numero di femminicidi – che attraversa tutti i campi artistici.
Una delle istanze sotto processo è l’io narrante maschile, che in quanto narratore e in quanto maschio asservirebbe doppiamente i personaggi femminili che racconta.
In molti vorrebbero farci pensare che è così, mettendo una sorta di museruola alle possibilità espressive dell’arte. E poi, chi lo ha detto che in un’opera letteraria un punto di vista maschile non possa perorare la causa delle donne?
I miei primi lavori non sono significativi da un punto di vista della memorabilità dei personaggi femminili. In effetti neppure i maschi sono memorabili. Ho lavorato a lungo proprio nella direzione opposta, se la maggior parte degli scrittori cerca l’unicità del personaggio – il tratto eccezionale, fisico e/o psichico – io sono andato ostinatamente controcorrente.
I miei primi libri di racconti si basavano su personaggi neutri espressi in una lingua media a cui accadevano cose minime: una sorta di narrazione astratta che prendeva senz’altro le mosse dal minimalismo, un grado zero che mi ha gettato nell’agone letterario con un grosso handicap – libri intelligenti, dicevano tutti, scuotendo la testa, riguardo a “Il piede nel letto” o “L’amore e altre forme d’odio”.
La prima donna davvero memorabile nella mia narrativa si trova nel racconto lungo “Mabel dice sì”, che è una vera e propria critica al mondo maschile raccontata attraverso la figura di una receptionist d’albergo.
La storia prende di mira il machismo polarizzato in due figure chiave, Tommasini (il vecchio direttore d’albergo, rappresentante del potere sociale) e Nicola (un giovane collega di Mabel, rappresentante del potere fisico).
Offrendosi a queste due tipologie d’uomo (e a molte altre) Mabel in realtà non fa che pronunciare un solo, gigantesco sì: a se stessa. E a narrare l’intera vicenda è l’unico maschio in grado di non venire abraso (non del tutto, almeno) dal contatto con lei: un omosessuale.
Quasi alla fine della narrazione un incubo in cui Mabel è letteralmente mangiata da tutti gli uomini che ha incontrato rivela e perfino denuncia la dinamica sessista in atto nel mondo del lavoro e nelle relazioni umane: «Mabel stava ferma sul piatto, muovendo la testa a piccoli scatti. Dovunque volgesse lo sguardo non c’erano che uomini affamati. E infatti qualcuno iniziava a mangiarsela. Alcuni se ne servivano educatamente, quasi con disciplina; altri non avevano rispetto, prendevano per due, si abbuffavano».
Nel libro “I difetti fondamentali” sono due i racconti che hanno come protagonista una donna, e benché siano narrati in terza persona, predispongo una rigida focalizzazione sul personaggio principale, quindi direi che fanno molto testo.
Ne “Il suggestionabile” la donna protagonista all’inizio è un uomo, si tratta di una racconto che narra una metamorfosi, e che attraverso di essa indaga i meccanismi di violenza di un gruppo di uomini che prima sono i colleghi del protagonista e poi i suoi corteggiatori.
Carlo Turinga si trasforma così in Carla Turinga non perdendo durante la trasformazione il suo carattere mite. Ciò che conta nel racconto è proprio ciò che resta uguale dentro al cambiamento di genere, infatti anche i colleghi di Turinga prima gli fanno mobbing e poi la stuprano, svelando la medesima pulsione violenta.
“La canonizzata” narra invece di Olga Merlin scrittrice di romanzi rosa che grazie alle attenzioni di un importante critico diviene una star della letteratura, e attraverso questo atto manipolatorio, allo stesso tempo possessivo e infantile, il tema del femminismo è trattato in modo più diretto e tradizionale.
Con “Gli autunnali” lo sguardo torna a essere maschile, il protagonista è un uomo che s’innamora di una donna, Gemma, perché gli piace credere che sia la reincarnazione di Jeanne Hébuterne, la compagna di Modigliani vissuta un secolo prima.
L’intera vicenda, che chiaramente parla di un amour fou e ha come nume tutelare Maupassant, si regge sulle prove che il protagonista raccoglie a sostegno della sua ipotesi farneticante, e nella scena madre, quando chiede a Gemma di buttarsi dalla finestra dell’abbaino (proprio come aveva fatto Gemma per amor di Modigliani), lei gli dice no.
È grazie a quel no che la narrazione arriva al suo apice e fornisce un controcanto significativo: la donna ideale esiste solo nella mente del protagonista nonché io narrante, Gemma non chiede di essere adorata, chiede di essere capita, vista per quello che è e non per quello che dovrebbe essere.
Anche ne “Gli estivi” è un uomo di mezza età che racconta il suo colpo di fulmine per Teresa, una ragazzina di cui si innamora e che continuerà a tenergli testa per quindici estati, mano a mano che diventa una donna (le tappe della sua crescita sono scandite abbastanza puntigliosamente, campeggio, separazione dalle amiche giovanili, flirt estivi con coetanei, fidanzamento e matrimonio, inserimento nel tessuto sociale del Circeo).
Anche qui, il lettore assiste a uno scontro alla pari, condotto con armi diverse ma che fa ricorso alle medesime scaltrezze e bassezze, è come una guerra sentimentale che procrastina il desiderio, che lo tiene in vita proprio perché lo rende impossibile da realizzare: nessuna subalternità da parte di Teresa, nessun timore reverenziale verso il genere sessuale e la maggiore esperienza e lo status sociale dell’uomo.
Durante un festival una giornalista quasi scandalizzata mi chiese: «Il suo protagonista guarda le autoreggenti di una donna in tram, perché ci propinate sempre questo sguardo maschile?».
Lì per lì pensai a uno scherzo, anche se era vero che ne “Gli autunnali” esiste una scena del genere, il protagonista nota la balza in pizzo di una calza sotto una gonna e la mette in relazione all’equinozio autunnale che «c’era anche se non si vedeva».
Dunque, a parte il fatto che lo sguardo dell’uomo in quel particolare passaggio si serve della calza per dare conto del sentimento del tempo- non c’è insomma nulla di maniacale o morboso nella sua contemplazione (o quantomeno del pensiero che scaturisce da quella contemplazione) – mi chiedo che cosa ci possa essere di sbagliato nel rappresentare una scena di questo tipo, cosa c’è di inverosimile, visto che chi mi pose la domanda mi aggredì come se nella realtà non esistessero autoreggenti o donne che le indossano.
Credo che scegliere un narratore maschile, un punto di vista maschile che racconta la storia sia un diritto sacrosanto dell’espressione letteraria. Con altrettanta convinzione credo che un personaggio non sia necessariamente lo schiavo del suo narratore.