Brrr!Tutto quello che avreste voluto sapere sui ghiaccioli ma non avete mai osato chiedere

La frutta ghiacciata è mille volte più buona dell’acqua aromatizzata che alcuni spacciano per prodotto artigianale e ha una storia molto affascinante che oggi vi raccontiamo

Caro ghiacciolo ti scrivo, così mi rinfresco un po’. Quanto vorrei che tu, semplice acqua zuccherata e aromatizzata fatta congelare attorno a un bastoncino di legno – come recita Wikipedia – avessi la stessa dignità e popolarità del gelato artigianale. Quanto vorrei che la gente capisse che no, non è per nulla semplice preparare un buon ghiacciolo, non è scontato saper donare la giusta compattezza al ghiaccio e dosare sapientemente lo zucchero, non è banale intuire che più acqua ci metti, meno si sentirà la frutta. Eppure.

Come tutti gli outsider che si rispettino, le origini del ghiacciolo affondano le radici in una specie di leggenda metropolitana, che negli anni ha subito smentite, ritrattazioni, e ha generato non pochi dibattiti. Sul sito di Popsicle, il più antico brand di ghiaccioli americano, si narra infatti che il ghiacciolo fu una specie d’invenzione accidentale: nel 1905 Frank Epperson, un bambino di undici anni di San Francisco, lasciò accidentalmente sul davanzale della sua finestra un bicchiere di acqua e soda con dentro il bastoncino che aveva usato per mescolarle. Era una notte fredda, ed Epperson la mattina dopo, quando si svegliò, riuscì a liberare il blocco di ghiaccio formatosi facendo scorrere acqua calda sul bicchiere, e prese a mangiarlo usando il bastoncino come manico.

Per molti anni, il dettaglio corroborante di questo ‘mito della creazione’ è stato il fatto che il giovane Frank vivesse a San Francisco, un particolare talmente cruciale da essere arrivato al necrologio di Epperson nel 1983 sul New York Times. I dati meteorologici dell’epoca, però, mostrano che a San Francisco nel 1905 non fece mai così tanto freddo, e ciò lasciò supporre agli storici più precisi che il luogo di nascita del ghiacciolo dovesse essere la città di Oakland, dove nel 1905 le temperature scesero sotto lo zero per ben tre volte, e dove un Epperson adulto brevettò la sua trovata nel 1923 (si dice che il primo gusto sia stato la ciliegia, sebbene non esistano a oggi prove schiaccianti), chiamandola – dietro consiglio dei propri figli – Popsicle.

Nel giro di due anni, Epperson cedette la sua partecipazione in Popsicle alla Joe Lowe Corporation, che iniziò immediatamente a fare causa ai concorrenti che nel frattempo erano spuntati come funghi (qualche nome: la Kold Kake Company in New Jersey; la MB Ise Kream Company in Texas; la Good Humor in Ohio), per violazione di brevetto. Alla fine, Popsicle e Good Humor (ora entrambe di proprietà di Unilever) giunsero a una tregua: Popsicle avrebbe prodotto solo ghiaccioli, mentre Good Humor avrebbe dominato il mercato dei gelati. Durante la Grande Depressione vennero lanciati i ghiaccioli con doppio stick, i Double Pops, dettati da un’esigenza pratico/economica: l’azienda era infatti alla ricerca di modi per rendere i suoi prodotti più convenienti agli occhi di consumatori che avevano pochi soldi da spendere in cibi e dolci frivoli, a meno che non fossero davvero un buon affare – nella fattispecie, due ghiaccioli al prezzo di un nichelino. E qua arriva l’inghippo. Mangiare un ghiacciolo, diciamolo, è sempre stato un atto d’amore denso di difficoltà, un’impresa appiccicosa e gocciolante, ma la nuova versione con due bastoncini pose un dilemma fino ad allora sconosciuto: sarebbe stato meglio romperli subito a metà e condividerli con un amico, oppure abbuffarsi approfittando della doppia razione, cercando di prevenire lo scioglimento e il conseguente crollo del ghiaccio tra le mani?

Negli Stati Uniti, il dibattito attorno alla giusta tecnica per affrontare un ghiacciolo con due bastoncini ha tenuto banco per anni, anzi, per decenni. I Double Pops regnarono indisturbati fino circa al 1987, quando un articolo pubblicato sul New York Times spiegò che l’azienda avrebbe gradualmente smesso di produrli perché le mamme statunitensi li trovavano messy, ed erano stufe di pulire i loro figli perennemente impiastricciati. Il vuoto lasciato nel cuore degli americani grandi e piccini era però incolmabile, al punto che nientemeno che Justin Bieber, nel maggio 2019, decide di smuovere le acque su Twitter, allegando al suo appello una foto del famoso ghiacciolo: «Parlando con @scooterbraun (il suo manager, Ndr) ci siamo resi conto che non riusciamo più a trovare i ghiaccioli col doppio stick!! È assurdo. @Popsicle devi fare qualcosa!». Scooter Braun a sua volta rincara la dose («Stasera @justinbieber mi ha riferito che nessuno vende più i ghiaccioli col doppio stick. Non ci potevo credere. Ma dopo aver cercato su Amazon e altri siti ho scoperto che la storia era cambiato. I ghiaccioli a bastoncino singolo sono tutto ciò che è rimasto. Questo è un oltraggio!!! Rivogliamo il doppio bastoncino!!! AIUTO!»), e la replica di Popsicle non si fa attendere. Dopo aver risposto a Bieber e Braun su Twitter («Vedremo cosa possiamo fare»), l’azienda lancia una massiccia campagna social: avrebbe realizzato una serie limitata di Double Pops, solo se il tweet che spiegava l’iniziativa avesse ottenuto almeno 100mila retweet. Long story short, lo scorso aprile Popsicle ha annunciato il ritorno dei tanto amati Double Pops, magra consolazione per un Paese ancora alle prese con la difficile gestione della pandemia di COVID-19.

E in Italia? Il ghiacciolo con un unico stecco approdò sulle nostre coste nel secondo dopoguerra, portato dagli americani insieme ad altri dolciumi e gelati industriali: in Emilia Romagna dal 1960 venne chiamato BIF, dall’acronimo dei cognomi dei tre soci titolari della società che fondarono l’azienda produttrice (Braglia – Iori – Fornaciari). A Bologna, per lo stesso motivo, il ghiacciolo era invece il COF, dal nome della ditta Cavazzoni Orlando e Fratelli, che aveva sede in città. Il successo è, ovviamente, immediato: rinfrescante, dissetante, poco calorico, il ghiacciolo rappresenta uno dei pochi escamotage in grado di donare sollievo immediato quando le temperature oltrepassano i 30 gradi, senza contare che porta con sé un bagaglio di dolci ricordi, in cui è meraviglioso tuffarsi e cullarsi almeno fino ad arrivare al bastoncino. Col tempo, sia negli Stati Uniti che in Italia, ci si è accorti che artigianale è meglio – beh, la polpa di frutta frullata vince a mani bassissime sullo sciroppo e sui coloranti alimentari –, quindi alcuni gelatai (ancora troppo pochi, ahinoi) si sono messi all’opera per creare un’alternativa più sana e gustosa rispetto a quella industriale. Morale, i ghiaccioli artigianali sono a tutti gli effetti una droga legale, sia che li si scelga al limone, alla fragola, al lampone, al melone, ai fichi, ai gelsi. La giornalista Francesca Romana Mezzadri su Dissapore ha pensato bene di stilare una ricetta semplicissima avvalendosi dei consigli del maestro gelatiere Paolo Brunelli per farli in casa: bastano 500 grammi di acqua, 125 grammi zucchero, 220 grammi di purea di frutta, 5 grammi di succo limone, stampini in plastica o in silicone e un pizzico di fantasia. Unica avvertenza: una volta provati è impossibile tornare indietro, parola di ghiacciolo-dipendente.

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