Una nuova generazione di politici ribelli è la speranza dei progressisti e dei liberali per costruire un’agenda globale in grado di contrastare populisti e nazionalisti, di combattere le diseguaglianze e di ampliare la sfera dei diritti. È la tesi di un sapido libretto curato da Matt Browne, ex consigliere di Tony Blair e fellow del Center for American Progress, ma soprattutto infaticabile promotore di un’alleanza transatlantica di tutte le forze liberal progressiste. Il testo si intitola “Insurgents, Inside a new generation of progressive leadership”.
Gli insurgent del titolo, i ribelli, sono il primo ministro della Nuova Zelanda Jacinda Ardern, il presidente francese Emmanuel Macron, il primo ministro canadese Justin Trudeau, l’italiano Matteo Renzi e il sindaco di Budapest Gergely Karácsony, quest’ultimo il personaggio più interessante anche perché il meno conosciuto del gruppo.
I riflettori sono puntati sulle formidabili capacità mostrate da Ardern dopo la strage suprematista di Christchurch e per la gestione dell’emergenza Covid-19, sulla guida gentile di Trudeau e sulle grandi manovre di Macron, dopo l’esperienza renziana che ha fatto da apripista, ma è il modello Budapest di Gergely Karácsony a dare ancora qualche tiepida speranza a chi in Italia prova a scongiurare il duello finale tra un populismo vagamente di sinistra e un sovranismo di destra.
Nell’Ungheria di Orbàn, l’elezione di Karácsony a sindaco di Budapest ha dimostrato come l’unica strada per battere i nazionalisti sia quella di mettere da parte antipatie e invidie reciproche e di costruire un’alleanza ampia tra tutti gli oppositori di idee illiberali e di leader autoritari.
I partiti progressisti europei, ha scritto Matt Browne, devono costruire nuove alleanze tra liberali, socialdemocratici, laburisti e verdi, fino a formare una specie di «coalizione semaforo» con un’agenda programmatica condivisa, anziché continuare a farsi la guerra tra di loro, come avviene regolarmente in Italia.
Immaginare una società progressista, tollerante e sostenibile capace di creare opportunità economiche e lavoro per tutti i cittadini, sostiene Browne, dovrebbe essere un obiettivo comune delle forze democratiche perché i rapporti personali dei leader non possono prevalere sulla condivisione di valori e di idee: «È arrivato il momento in cui i partiti progressisti, anche quelli con tradizioni e culture diverse, accettino l’idea che ciò che hanno in comune oggi è molto più importante di ciò che li divide».
Servono leadership autentiche, con il senso di una missione, capaci di unire, non di dividere, pronte a sperimentare forme innovative di organizzazione politica.
Sembra banale, ma non lo è. In Italia c’è un’ampia area liberale e socialista, progressista e democratica, allargabile a chiunque non voglia arrendersi al declino, ma che è ancora senza sbocco politico. I nostri partiti progressisti e liberali preferiscono annichilire il concorrente interno e arrendersi all’avversario esterno piuttosto che sedersi intorno a un tavolo con gente che la pensa allo stesso modo.
La responsabilità di questo gigantesco fallimento politico non è dei populisti e dei nazionalisti, e nemmeno delle quinte colonne asintomatiche nel fronte democratico, ma ogni giorno che passa sempre più degli adulti del Pd, di Matteo Renzi, di Mara Carfagna, di Carlo Calenda, di Emma Bonino, di Stefano Parisi, della sinistra laburista e ambientalista e di tutti quelli che scelgono la strada della divisione, del compromesso e del tornaconto personale invece del modello Budapest di Gergely Karácsony.