Con la fine del lockdown, lo spaccio sta tornando agli angoli delle nostre città. Ma le comunità di recupero fanno fatica a ripartire. Durante l’emergenza sanitaria, sono rimaste avvolte nel silenzio, senza assistenza e linee guida da seguire. Gli operatori hanno dovuto adeguare percorsi di riabilitazione lunghi e faticosi alle rigide regole del confinamento, procurandosi anche da soli mascherine, gel igienizzanti e protezioni. E lo stesso sta accadendo nella fase due.
Ora, in occasione della Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droghe, che si celebra ogni anno il 26 giugno, si fanno sentire dopo mesi di fatica. Chiedendo a gran voce che i servizi di cura contro le dipendenze siano equiparati ai servizi sanitari essenziali.
«L’inaspettata irruzione del Covid-19 ha portato alla luce numerose disfunzioni del nostro sistema di cura e assistenza sanitaria», scrivono in una nota da Dianova Onlus, che da oltre trent’anni si occupa di dipendenze. «Purtroppo queste disfunzioni hanno colpito principalmente i più vulnerabili, e tra questi, le persone che consumano droghe».
Nei mesi di lockdown, gli operatori delle comunità terapeutiche hanno continuato a lavorare, in condizioni difficili e spesso pericolose. «Alle comunità non sono stati forniti né i dispositivi di protezione individuale, né le risorse per comprarli. Siamo stati in grado di reperire quello di cui avevamo bisogno da soli», raccontano da Dianova.
«Dopo la prima fase di “sorpresa” e smarrimento, abbiamo iniziato a rimodulare e riorganizzare ogni aspetto della vita comunitaria», spiega uno degli 80 operatori di Dianova, tra le più attive in Italia e nel mondo nel trattamento delle dipendenze patologiche. «Ci siamo messi le mascherine, abbiamo mantenuto le distanze, abbiamo parlato con tutti gli utenti e abbiamo spiegato loro la situazione complessa che si era venuta a creare. Non è stato fargli capire ciò che stava accadendo, stimolarli ad essere pazienti e a sapersi gestire emotivamente».
Le uscite, parte integrante dei percorsi di riabilitazione, sono state bloccate. E così anche le visite ai parenti, appuntamenti attesissimi per chi sta cercando di liberarsi dai mostri della droga e dell’alcol. Anche gli ingressi sono stati ridotti al lumicino: solo le poche con spazi adatti alla quarantena precauzionale dall’inizio del lockdown hanno potuto accogliere tossicodipendenti. Le altre hanno dovuto chiudere le porte. E molti centri, mentre il mondo fuori riparte, continuano a dover restare blindati.
Con il caso limite della regione Lombardia che, in una delibera dello scorso 9 giugno, chiede che per i nuovi ingressi in comunità il paziente venga isolato 14 giorni prima dell’ingresso e, una volta entrato in comunità, rispetti altri 14 giorni di quarantena. Una volta in comunità poi, il paziente non più uscire. E, se lo fa, dovrà ripetere l’isolamento preventivo. Questo significa che non è possibile fare visita alla famiglie e neanche riavviare percorsi di inserimento lavorativo e di formazione. Un controsenso per chi punta al reinserimento sociale.
La condizione di confinamento, distanza e chiusura ha finito per alimentare le paure e voglia di isolamento di cui si nutrono le dipendenze, spiegano gli operatori. Come evidenzia una relazione dell’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze, le persone che consumano droghe sono maggiormente a rischio di contagio. E anche il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla Salute ha spiegato come la pandemia abbia fatto emergere la forte emarginazione sociale di chi consuma droghe, ma anche dall’impossibilità, in molti casi, di accedere a un servizio e di ricevere l’assistenza sanitaria adeguata.
«Ignorare queste certezze sarebbe un grave errore. I servizi per le dipendenze sono essenziali», ribadiscono da Dianova. «Le dipendenze patologiche sono un problema sanitario e per questo garantire i servizi di cura dovrebbe essere la mission di ogni società civile».
L’obiettivo, ora, è quello di far riconoscere i servizi per le dipendenze a pari livello dei servizi sanitari essenziali e ricevere la stessa assistenza e lo stesso supporto, «in quanto i disturbi correlati all’uso di sostanze sono una questione di salute pubblica. Se si presenterà un’altra crisi di questa portata, i servizi per le dipendenze non dovranno essere considerati il parente povero del sistema sanitario pubblico».