«Nella vita mi sono solo drogata. L’unico piacere per me era quello che mi dava l’eroina. Ora sto lavorando per provare piacere nelle altre cose, senza quella maledetta sostanza». Simona ha 42 anni e un figlio di 11. La sua prima dose, quando aveva 17 anni. Da un anno e mezzo vive in una villetta tra le colline di Palombara Sabina, alle porte di Roma, una delle cinque comunità per tossicodipendenti e alcolisti gestite in Italia dalla onlus Dianova, tra le più attive in Italia e nel mondo nel trattamento delle dipendenze patologiche. Per il 26 giugno, in occasione della Giornata internazionale contro il consumo e il traffico illecito di droga, Dianova lancerà la campagna “Cambia la sostanza: “dipende” anche da te!”, un gioco di parole per ricordare che ognuno può essere promotore di un cambiamento attraverso i servizi di assistenza che spesso non sono conosciuti, soprattutto dai più giovani. In un Paese, come l’Italia, in cui solo nel 2018 si sono registrati ben 251 decessi per abuso di droghe, con una impennata nel consumo degli oppiacei. «L’eroina ti lega a lei come con il cordone ombelicale», dice Simona. «Ora però mi sento pronta a tagliarlo. Sento che è la volta buona».
La “stanza degli ingressi” nella comunità è una piccola casupola di legno separata dalla struttura principale. Sulla porta un cartello chiede di “rispettare la privacy”. Dentro, una scrivania, qualche sedia e una divano a fiori. È qui che si tengono i primi colloqui quando da uno dei Sert del Lazio arriva un nuovo utente. A dirigere la struttura Massimo Bagnaschi, milanese, educatore con trent’anni di esperienza alle spalle nel mondo delle dipendenze. «Qui parliamo di dipendenza, al di là della sostanza, perché è quella che si cura», dice. «Il nostro obiettivo è il raggiungimento della maggiore autonomia possibile. Non tutti ce la fanno a uscire “drug free”, completamente puliti. Ma non serve accanirsi. Ci è capitato un caso in cui ogni volta che si scendeva sotto i 25 cc di metadone, sorgevano problemi. Per cui ci siamo fermati lì». Ogni percorso è personalizzato. E la Bibbia, tra queste mira, si chiama Icf-Dipendenze, un manuale che contiene strumenti e percorsi per valutare e programmare la riabilitazione dalle dipendenze patologiche.
Chi ha a che fare con un dipendente è abituato a muoversi sulla montagne russe. Le storie di chi a un certo punto non è più riuscito a fare a meno di eroina, cocaina, alcol, farmaci o gioco d’azzardo sono fatte di alti e bassi. Quando ti senti «pulito», ogni scusa è buona per ricascarci. «La prima volta ho provato l’eroina perché mi annoiavo. Vivevo in un paese piccolino, non c’era niente da fare. Mi piaceva l’adrenalina che provavo quando “andavo a fa’ le storie” dagli spacciatori», racconta Simona. «Nel corso della mia vita, poi, ho sempre lavorato, facevo le pulizie, perché avevo bisogno dei soldi per farmi. Anche il padre di mio figlio è tossicodipendente, quindi servivano pure i soldi per lui, che invece non lavorava. Per me spendevo 50 euro al giorno. Calcolavo tutto, la suddividevo nel corso della giornata. Non doveva mai mancarmi quella della mattina: era sacrosanta. Prima di andare a lavorare, mi bucavo e poco dopo uscivo». Quando Simona è rimasta incinta, era sotto metadone. «Ma dopo che mio figlio è nato, ho cominciato di nuovo a farmi. Ho sempre condotto questa doppia vita». Finché i servizi sociali le hanno dato l’aut aut: se non fosse entrata in comunità, le avrebbero tolto il bambino. Ed eccola a Palombara Sabina, dopo aver passato il calvario dell’astinenza, della dipendenza da alcol e dei tanti chili persi. «Ne ho combinate di tutte in quest’anno e mezzo», dice. «Ora basta».
Secondo la filosofia di Dianova, la riabilitazione del dipendente passa attraverso la socialità. «La comunità non è un luogo chiuso, i metodi non sono più quelli di una volta», dice Massimo. Nella struttura di Palombara, i 18 utenti seguono un laboratorio di pittura tenuto da un ex pilota militare, curano i 400 ulivi e l’orto della comunità, fanno sport e partecipano ad attività di inserimento lavorativo. Le attività variano di comunità in comunità. A Cozzo, in provincia di Pavia, si creano arredamenti con il riciclo di bancali. In quella di Garbagnate, Milano, si fa teatro. A Ortacesus, Cagliari, si impara a fare la pizza. A Montefiore, Ascoli Piceno, c’è anche chi studia fotografia.
Ma le regole sono ferree. «Ci sono gli orari, le attività da seguire, i test, i colloqui individuali e di gruppo», dice Massimo. Nessuno sta con le mani in mano. Tant’è che c’è anche chi, ottenuta la pena alternativa in comunità, alla fine ha preferito tornare in carcere. «Perché qui non si può stare senza far niente». E anche i tempi della riabilitazione sono rigidi e pianificati. Le telefonate alle famiglie sono settimanali. Dopo tre mesi di permanenza, la prima visita dei familiari; dopo 7-8 mesi la prima uscita. Passato un anno, la prima “verifica”, con un ritorno di 5-7 giorni in famiglia.
Nella sala da pranzo con il tavolo di legno e il camino, si trova la bacheca con i nomi di ciascuno dei 18 ospiti. Quelli con il cartellino rosso cono i dipendenti da alcol, quelli in giallo i polidipendenti, che hanno fatto uso di più sostanze. Per ognuno di loro, sul cartellino, sono descritti gli obiettivi. E ciascuno ha una freccia accanto al nome per descrivere l’andamento del percorso. «La freccia all’insù significa che va male, all’ingiù che va bene, le frecce orizzontali significano che si sta vivendo una situazione di stabilità», spiega Massimo. In un riquadro a parte, i nomi di chi è in una fase si sospensione e chi si trova in “pausa di riflessione”.
Simona ha la freccia all’ingiù, quindi il suo percorso sta andando bene. Suo figlio, racconta, «quando viene a trovarmi scappa subito a vedere come sta messa la freccia». E pure Carlo procede bene, finalmente. Quarantatré anni, una parlantina veloce e forbita, arriva da uno dei quartieri altolocati di Roma. E con il suo negozio di abbigliamento ha vestito generazioni e generazioni di giovani romani. Il suo problema si chiama alcol. All’inizio beveva qualcosa tra aperitivi, cene e discoteche. Poi, nella primavera del 2003, la coincidenza tra la fine improvvisa di una storia d’amore e la crisi del negozio è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’alcol, mixato alla cocaina e alle benzodiazepine, ha fatto il resto. «Ho avuto un crollo», racconta. «Appena mi sentivo terribilmente solo, cominciavo a bere. La sensazione di non accettazione della realtà era così forte da sentire il bisogno di una sostanza che coprisse tutto questo dolore. Stavo alla mercé del mondo, non ricordavo quello che combinavo». Il negozio chiude. E dall’abbigliamento, poi, passa a fare il pizzaiolo. Da lì comincia a girare il mondo facendo pizze. Impara tre lingue. Alternando lavoro e bevute, tra Germania, Grecia, Austria, Spagna. Quando si annoiava, gli bastava cercare su Internet un annuncio e cambiava ristorante, e Paese. Quindici anni di su e giù, periodi bui e schiarite, passando per altre tre comunità. Fino ad arrivare a Palombara 13 mesi fa. «La prossima settimana faccio la prima verifica a casa», dice.
È quasi ora di pranzo. Carlo va a dare una mano. L’ultimo arrivato, un ragazzo con problemi di eroina, è stato mandato dal Sert una settimana fa. Rosa, 60 anni, è arrivata invece dopo un’overdose. C’è chi porta da fuori un cesto di albicocche. Poco dopo tornano gli altri, dopo una mattinata trascorsa a vedere una mostra sull’aviazione fuori paese.
In tutto il Lazio, le comunità accreditate con il sistema sanitario nazionale sono solo 13, con un’offerta di soli 800 posti per 10mila utenti del Sert. In pochi riescono a entrare in un percorso riabilitativo. Gli altri si fermano al Sert, alla somministrazione del metadone. O emigrano verso altre regioni. Così si scopre che, anche per le dipendenze, esistono le migrazioni sanitarie di regione in regione, facendo lievitare i costi. «Manca la programmazione regionale», spiega Massimo. «Ogni Sert è un piccolo mondo e non c’è coordinamento». Così come mancano i servizi per i più giovani, quegli adolescenti che sono sempre più numerosi tra i consumatori di droghe. «A Tor Bella Monaca, a Roma, a Rogoredo, a Milano, le buste di eroina si vendono ormai a 5 euro, e il consumo è sempre più precoce», racconta Massimo. «La droga si può comprare su Internet, le tecniche si evolvono. E anche noi che siamo del mestiere fatichiamo a stare dietro alle novità. Il problema è che i minori non si rivolgono ai servizi. Servono centri specializzati sugli adolescenti, e soprattutto tanta prevenzione e informazione. Tutte cose che non vengono fatte».
I numeri dei consumatori di sostanze stupefacenti in Italia continua a crescere, con un aumento della diffusione dell’eroina e del fentanyl, un oppioide sintetico simile alla morfina. In base a quanto riportato nell’ultima relazione sulle tossicodipendenze, in Italia circa 4 milioni di persone hanno utilizzato almeno una sostanza stupefacente illegale e, di questi, mezzo milione ne fa un uso frequente. Tra gli studenti, l’1,1% (circa 28.000) dice di aver fatto uso di eroina almeno una volta nella vita. «Il servizio pubblico e privato dimostrano l’incapacità di intercettare quella fascia di popolazione giovanile di nuovi consumatori», spiega Massimo. «Serve informazione e prevenzione». E dalla stessa Dianova si chiede un nuovo approccio basato sulla «repressione del traffico di stupefacenti detenuto dalle organizzazioni criminali» e non sulla «repressione del consumatore» come fatto finora. Una misura, spiegano, «non solo inefficace ma che ha provocato nel corso degli anni l’emarginazione dei consumatori di droghe, escludendoli dalla rete assistenziale».
In comunità si arriva quando si è sotto metadone. L’eroina resta fuori da queste mura. Piano piano comincia lo “scalaggio”. «Non è questa la parte più difficile», ammette Massimo. «Ma più scali e più emerge quella che era la difficoltà iniziale che ti ha portato a fare uso di quella sostanza. È lì che cominci a lavorare sul serio, quando togli il fango e ritrovi te stesso con quelle problematiche che avevi tappato sotto la sostanza». «Senza droga non so più chi sono, non provo più piacere», dice Simona. «È come se dovessi reinventarmi. Nella vita non ho fatto altro che drogarmi».