Tra tragedia e commediaL’incontro di dramma e farsa diventerà l’arte del post coronavirus, dice Francesca Archibugi

La regista romana racconta le nuove forme di creatività che l’emergenza sanitaria ha fatto nascere: «Credo che non sia tanto importante che cosa racconti, ma come lo racconti. Il tono narrativo. Ognuno declinerà il suo»

In questi giorni di graduali riaperture, l’entusiasmo, la rabbia, i timori e il desiderio di rimozione – in parte salutare, in parte meno – sono sensazioni che si scontrano.

Continuiamo a comprendere poco del virus e assistiamo alle discussioni tra medici come fossero dispute di retorica. Per tutto ciò che non riusciamo a risolvere mettiamo una barriera di plexiglass: dopo i ristoranti e le spiagge, adesso pare che anche nelle aule scolastiche potrebbero essere installati dei bei pannelli per evitare i contatti.

Alcune regioni suggeriscono di non usare l’app di tracciamento che il governo ha varato, cioè il sistema più efficace che abbiamo faticosamente messo in campo, ma per la società civile il vero tema è l’immagine della schermata di apertura di Immuni.

Nel continuo bilico tra tragedia e commedia, la voce di Francesca Archibugi emerge con particolare limpidezza, soprattutto ci fa sperare che qualcuno saprà cogliere e trasformare in arte la costante abitudine italiana allo spostarsi sul piano della farsa.

Per mesi ci hanno detto che tutti avrebbero dovuto fare le vacanze in Italia per aiutare il paese, invece questa settimana il tema principale del dibattito politico sono state le vacanze in Grecia…
Vivo in campagna da tre mesi. Completamente isolata. Dopo i primi tempi che ascoltavo tutto, leggevo tutto, ci mettevamo davanti alla conferenza stampa della protezione civile alle 18 come officiassimo un rito, ho avuto il rigetto. Non seguo più nessun dibattito politico. Ho sperato che l’informazione divenisse più responsabile e sono stata delusa.

D’altra parte «Quest’estate non staremo al balcone» e «gli italiani andranno in vacanza! sono state parole di Giuseppe Conte. È vero che non tutti i discorsi possono essere sull’ «ora più buia!, però è anche indicativo delle priorità degli italiani…
Ecco, non sapevo che l’avesse detto. Sinceramente cerco di non ascoltare una frase, la controfrase, le rettifiche, le polemiche. Sto cercando di attuare davvero una specie di controinformazione. Perché giornalisti bravi ci sono e seguo dei nomi scelti.

Prima c’erano state le polemiche tra regioni. I siciliani che non volevano nessuno dal Nord. Il sindaco di Milano che minaccia – «ce ne ricorderemo» – la Sardegna… Quarantene e test obbligatori, passaporto sanitario…
Polemiche ridicole fra amministratori. In generale, la classe politica è stata meno responsabile dei cittadini. Che hanno capito il pericolo, sono stati tutto sommato ragionevoli, continuamente bombardati di dichiarazioni contraddittorie e a volte insensate. Poi certo, c’è la Lombardia. Dovremo capire cosa è successo.

Il contagio si è diffuso in maniera diversa, ma la scuola è rimasta chiusa ovunque. Molte hanno fatto il ponte del primo giugno e solo il Garante ha revocato lo sciopero dell’otto. È stata la prima cosa a chiudere e sarà l’ultima a riaprire, dopo palestre e discoteche…
In assenza della scuola si può aprire una voragine di ingiustizia sociale. Ecco, mi pare che in Italia non si sia tenuto conto di questo, soprattutto. A scuola si apprendono nozioni e ad amare la conoscenza, ma si forma anche l’individuo nel mondo, la scuola è il microcosmo che dice a noi stessi chi siamo.

A scuola c’è il confronto anche duro con gli altri. Sospendere la scuola è sospendere la difesa sociale dei più deboli economicamente e i più fragili psichicamente. Non è solo un errore, è un’ingiustizia. Bisognava trovare il modo di riprendere al più presto la didattica.

A breve dovrebbero riaprire i cinema, e anche la possibilità di girare. Ma le regole sono complicate. Tu cosa ti aspetti?
Mi hanno inviato i protocolli di sicurezza e credo che sia impossibile, per il momento, girare delle scene senza che ne venga intaccata pesantemente la libertà espressiva. Ma sono fiduciosa. È tutto così recente, troveremo un modo. Ho fiducia nella creatività quando si applica per disperazione, senza narcisismi.

Ma siamo soli. In Francia il governo si è accollato la responsabilità delle assicurazioni. Le troupe possono partire. Se succede qualcosa, se c’è un contagio e le riprese si devono fermare, la produzione andrà sotto assicurazione che sarà garantita dallo Stato. Questo è l’unica possibilità per non far fallire le imprese cinematografiche.

Ma soprattutto cosa ti aspetti che racconteremo? Faremo finta che il virus è passato o non ci sia mai stato?
Sono impaziente anch’io di vedere come diventerà film tutto questo che stiamo attraversando. Prima di tutto sono una spettatrice. Sento molte profezie: saremo stufi del virus e vorremmo vedere altro.

Oppure: sarà imprescindibile, è cambiata per sempre la nostra vita. Ma sappiamo che i film sono un mistero, non sono gli elementi razionali che li rendono belli, non c’è progetto su carta, a  tavolino, ideazione intelligentissima o fa’ la cosa giusta: verremo sorpresi se c’è bellezza e basta. Di qualunque tipo.

Sono certo che sapremo raccontare l’eroismo del personale sanitario, ma la tragicommedia sapremo raccontarla?
Credo che non sia tanto importante cosa racconti ma come lo racconti. Il tono narrativo. Ognuno declinerà il suo. È la forza dell’arte no? Più ci saranno sguardi diversi, visioni opposte, più sarà esaltante, anche se ogni epoca ha il suo conformismo stilistico. L’importante, l’unica cosa che conta, è il talento di chi racconta.

Temo che ci saranno valanghe di commedie che banalizzeranno. Poi ci sarà qualche bellissimo film. Anche tragicomico. Troppe cose fanno ridere, come i carabinieri sovrappeso alla caccia dei corridori smilzi, e troppe cose fanno piangere, come le bare sui carri dell’esercito che abbandonano Bergamo di notte.

Il Regno Unito ha avuto dei “cattivi” molto cinematografici. Prima il consulente scientifico del governo che violava il lockdown da lui stesso suggerito per incontrare l’amante. Poi il consigliere di Boris Johnson che viola per andare dai genitori. Noi abbiamo avuto i runner e la movida…
Gli archetipi narrativi si ripetono, credo che il consigliere di Boris Johnson ci fosse già nell’Odissea! Quindi sì, ci saranno tutti, ma perché ci sono sempre stati. Noi siamo gli italiani. Quasi una categoria dello spirito.

Non è il contesto  l’importante, è il testo, e credo che il testo sia la persona, il personaggio, che vive e attraversa dei momenti della vita e uno di questi può essere una pandemia. I suoi sentimenti nel farlo. Sentimento è una parola che si è svuotata ed è diventata stucchevole, ma comprende odio, invidia, meschinità.

La gelosia che raccontava Saffo nel 600 a.c. non è diversa da quella che possiamo provare noi. Al contrario di al giorno d’oggi, mi piacciono i racconti dell’immutabile nella condizione umana. Il contesto può cambiare.

Perfino l’app per il tracciamento è diventata un momento ridicolo. Doveva essere pronta a inizio maggio e si diceva che senza di essa nessuna riapertura era possibile. È arrivata solo adesso e pure un po’ in sordina…
È arrivata goffa e in ritardo come una vicepreside che si atteggia molto e le sbaglia tutte.

Stando ai numeri la gestione dell’epidemia in Italia è stata tra le più tragiche al mondo. Eppure, stando ai sondaggi, i cittadini credono sia stata una gestione molto efficace…
Questo però mi piace. Non è da noi, che siamo un popolo abbastanza cinico. È una risposta romantica e da illusi.

Per settimane ci siamo chiesti chissà quando sarebbe arrivata una notizia in grado di prendere il posto del coronavirus in prima pagina. Quando finalmente è arrivata, erano le proteste negli Stati Uniti…
Le persone vogliano sapere, informarsi, commentare, condividere, soprattutto nel caso di fatti così significativi per la vita di tutti noi, come la morte di George Floyd e la sorprendente e poderosa ribellione americana. Ma come per la narrazione, anche l’informazione  dovrebbe riflettere molto sul  come.

Anche l’Italia ha avuto la sua protesta: i gilet arancioni…
Sinceramente mi fanno molta, ma molta pena. Dietro quelle facce feroci, che urlano davanti a un microfono (ma lo sanno che amplifica e non c’è bisogno di urlare?) vedo delle persone completamente sprovvedute. Mi sembra che urlino: sono cretino! Non capisco assolutamente niente! Aiutatemi!

Nel tuo ultimo film, Vivere, hai raccontato una famiglia implodere per l’arrivo di una ragazza alla pari. Pare che a Wuhan i divorzi siano triplicati una volta finita la quarantena. Ti aspetti qualcosa di simile?
Non lo so. Stare insieme è difficile, si sa. Abbiamo bisogno di protezione, calore, vicinanza, e nello stesso tempo in quel calore e in quella vicinanza ci grattiamo insofferenti e infelici. Queste reclusioni coatte ci hanno fatto fare un balzo antropologico, ma senza scarto, solo in avanti, nella stessa direzione che avevamo già imboccato.

Sarebbe stato rivoluzionario se le disposizioni governative fossero state: dovete stare tutti fuori casa almeno sedici ore al giorno, c’è un virus che si annida nei tappeti, nelle tende e nei divani. Da parecchio tempo ci stavamo già autoconfinando, a volte con piacere, a volte per paura, perché “l’inferno sono gli altri”.

E gli altri a tratti sono i nostri congiunti. Ma solo a tratti. Perché il bisogno primordiale d’amore, protezione, calore, vicinanza, è l’eterna lotta con l’orticaria che ci provocano i nostri innamorati.

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