Non è la prima volta che la cronaca e il dibattito pubblico si occupano della statua dedicata al giornalista e fondatore del quotidiano Il Giornale, Indro Montanelli, che più o meno 14 anni fa è stata posta nei giardini della zona milanese di Palestro anche essi a lui dedicati.
È successo anche nei giorni scorsi quando, come abbiamo avuto modo di apprendere, con un raid della durata di appena 41 secondi, alcuni giovani appartenenti a dei collettivi studenteschi l’hanno imbrattata verniciandola con scritte atte a evidenziare un passato da razzista.
In seguito, abbiamo anche appreso che, tramite un video diffuso via social, Rete Studenti Milano e collettivo Lume hanno rivendicato la paternità del gesto e anche che la polizia locale di Milano ha dovuto tenere la statua controllata a vista durante la notte in attesa dell’intervento di pulizia da parte di squadre specializzate nella rimozione dei graffiti.
Abbiamo appreso anche che, sulla scorta di alcuni passaggi della vita del giornalista italiano da lui stesso raccontati, che lo hanno visto protagonista di violenza sessuale ai danni di una 12enne eritrea durante l’invasione italiana dell’Etiopia, l’attacco alla statua è entrato a far parte del più ampio contesto delle proteste contro il razzismo che stanno divampando in tutto il mondo e che hanno coinvolto per esempio anche le statue di Winston Churchill a Westminster, Londra, e di Cristoforo Colombo a Houston, in Texas e di Edward Colston, mercante-filantropo di Bristol che si è tuttavia arricchito anche con il commercio degli schiavi.
Ma quello a cui stiamo assistendo, anche se ha assunto proporzioni globali, è “solo” una nuova ondata di quei movimenti iconoclastici che a partire dei secoli ottavo e nono della nostra storia, ciclicamente l’umanità esprime per opporsi alle convenzioni, alle ideologie e ai principi comunemente accettati dalla società vigente?
Senza voler minimizzare il fenomeno che, ripeto, ha caratura mondiale, e senza però condividere il pensiero di quanti ritengono totalmente e per sempre assolte le persone che nel loro tempo hanno incarnato visioni e idee oggi ritenute a ragione lesive dei diritti primari degli individui, ritengo che rifarsi sulle loro icone sia del tutto inutile se non deleterio.
Se non altro perché alla semplice cancellazione dell’icona non corrisponde l’altrettanto semplice cancellazione dell’azione che ce l’ha resa invisa. Se abbattendo statue e vestigia risolvessimo radicalmente i costumi e gli usi basati sulle violenze e sulle vessazioni spesso anche di natura sessuale che quotidianamente si esprimono in totale violazione dei diritti più elementari, starei a capo della fila.
Invece, il fatto è che con o senza statue, è ancora possibile e legale combinare matrimoni tra maschi adulti e bambine anche minori di 10 anni, è ancora possibile, e gli italiani ne sono tra i principali fautori, dedicarsi al turismo sessuale che nei paesi più poveri è un importante asset, è ancora possibile inventare e perpetrare su uomini e donne, nuove e sempre più sofisticate forme di schiavitù dove quella economica non è meno vile o opprimente rispetto a quella sessuale che tuttavia ancora impera anche nelle nostre strade di città.
Abbattendo le statue, demolendo le icone della nostra storia, non risolviamo i problemi, solo allontaniamo da noi il fastidio di dovervi fare i conti. E, perdonatemi la brutale franchezza, allontaniamo volontariamente da noi la responsabilità di dovercene fare carico.
Certo è faticoso, per ogni individuo è faticoso chiedersi dove vuole andare, quale direzione intraprendere, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui ci siamo bellamente acquartierati nella percezione della realtà a nostro uso e consumo perché più comoda della realtà tout court, che è troppo veloce e complessa per le nostre fragili tempre.
Ma il momento è epocale, se non unico e ultimo, e necessita di un cambiamento perché come diceva proprio quel Winston Churchill recentemente contestato «per migliorare bisogna cambiare, quindi per essere perfetti occorre cambiare spesso». Anche se non vedo intorno a me la volontà di cambiare ma una sempre più ricorrente tendenza a lamentarsi o a distruggere senza che però vi sia una altrettanto ricorrente attività nella proposizione di risoluzioni, ritengo che dobbiamo tornare al punto 0.
Cioè al punto dal quale individuare un modo nuovo di pensare, di agire e di relazionarci con il Tutto. Che sia un modo etico, sostenibile e innovativo. In una parola sola: innovability.