La Valeri è un monumento nazionale, conosciuta e riconosciuta da almeno tre, forse quattro generazioni. Il suo talento di attrice non ha bisogno di ulteriori presentazioni e infatti non è su questo che mi soffermerò. Vi parlerò di una persona meravigliosa e di una grande scrittrice.
Devo la conoscenza di Franca Valeri a un mio caro amico, Urbano Barberini, suo confidente, sodale, compagno di lavoro e figlio ideale. Hanno cominciato a lavorare insieme una ventina di anni fa e da allora non si sono più lasciati. Urbano rappresenta per Franca ciò che non ha mai avuto, e lei, quel che lui ha perduto. La vicinanza di una persona come Franca è un dono, me ne accorgo tutte le volte che ho la fortuna di passare un po’ di tempo con lei. Esiste uno speciale piacere nell’ascoltare una mente al lavoro, e la mente di Franca Valeri è instancabile, leggera, prensile, capace di afferrare le sfumature dell’animo umano in maniera folle e dunque assolutamente saggia.
La perspicacia è forse la sua dote più spiccata, lo strumento che le permette di registrare il non detto, di elaborarlo e poi restituirlo con precisione. Un’arma infallibile che ha adoperato per inventare i suoi personaggi, rielaborazioni di persone in carne e ossa, studiate e osservate con sagacia e intelligenza. Un’attitudine che esercita nella vita di tutti i giorni; è sempre vigile e presente anche quando appare lontana, distante dalle conversazioni che si svolgono attorno a lei. Può capitare di ritrovarsi a tavola con lei, o in un salotto, e non cogliere una sua parola fino alla fine della serata.
Si potrebbe avere l’impressione che non abbia voglia di partecipare, che non sia interessata a interloquire o, più cinicamente, che non abbia sentito nulla quasi sorda com’è, e invece, immancabilmente, se ne esce con un paio di battute fulminanti su un argomento affrontato magari mezz’ora prima. Non spreca una parola Franca, e non parla mai a vanvera. Una volta, dopo aver assistito a uno spettacolo che non doveva essere stato di suo gradimento, alla domanda: “Ti è piaciuto?” ha così sintetizzato il suo commento: “Cosa?”.
Battuta degna di Neil Simon.
Urbano mi ha raccontato un paio di episodi esemplari accaduti durante le repliche di un loro spettacolo. Al teatro La Pergola di Firenze, a un certo punto, nel mezzo della rappresentazione, è saltata la luce. Preso alla sprovvista Urbano ha provato a riempire il vuoto inventandosi la battuta: “Vado a controllare le valvole!” e al buio, la risposta secca di Franca è stata: “È inutile che cerchi di rimediare.” L’effetto comico è stato travolgente. Un’altra volta, per negligenza del direttore di scena, non arrivò in tempo lo squillo di una telefonata.
Provarono a ovviare scambiandosi frasi del tipo: “Strano, a quest’ora avrebbe dovuto telefonare…”, oppure “Hai controllato che il telefono non sia fuori posto?” calcando la voce sulla parola telefono affinché arrivasse al distratto attrezzista. Niente. Andarono avanti per un po’, poi Franca perse la pazienza e ordinò: “Il telefono ha suonato. Rispondi!”.
Con l’insorgere della malattia, l’uso delle parole si è fatto, se possibile, ancora più parsimonioso, ma questo ha affilato la lama, e quando Franca decide di dire qualcosa, i fendenti lasciano il segno. Ora che non può più contare su una fluida espressione vocale (immaginate che dramma per un’attrice), si è rifugiata nella scrittura, e negli ultimi anni, l’autrice Valeri ha prodotto purissime gemme letterarie. Ho avuto il piacere di fare alcune letture pubbliche dei suoi libri, ed è stato molto interessante decidere cosa leggere, produrre una selezione accurata dei testi.
Vista la fama dell’autrice il pubblico si aspetta di ridere, e spesso ciò accade, nei passaggi sarcastici, ironici, in cui si riconosce il suo timbro inconfondibile, ma a me premeva far emergere il lato riflessivo, a tratti malinconico, la forza letteraria delle sue parole, come queste: “Nel cerchio mnemonico che chiude la tua vita, ti accorgi come per una rivelazione che loro, padre e madre, sono stati i più significativi. Ti appaiono alla distanza come due busti marmorei sotto un eterno plenilunio, scampati, i miei, per uno scarto di pochi difficili anni, alla devastazione dell’educazione permissiva. Mio padre era padre severo per il solo fatto di essere un esempio.
Quell’uomo raffinato, esterofilo, antifascista e goloso, era qualcuno a cui volevo assomigliare. Le caratteristiche della sua gola le ho ereditate tutte, a cominciare dalla cioccolata; la scatola dei cioccolatini che stava sempre sul suo comodino, di un metallo blu, l’ho gelosamente conservata, anche se contiene ormai solo delle puntine.”
Franca Valeri è drammaturga. Ha scritto monologhi, commedie. A novant’anni le è stata conferita una laurea honoris causa in Scienze dello Spettacolo. La sua lectio magistralis, dal titolo Una vocazione storica, meriterebbe a sua volta un premio già a partire dalla sua introduzione: “Sarà difficilmente plausibile fare rientrare questo mio intervento, modesto, nel termine lezione. Ma la mia irrefrenabile attitudine all’esibizione mi ha convinto che, da parte mia, anche questa occasione così particolare fosse utile per ricorrere al genere discorsivo.”
Dopo aver ripercorso le tappe della sua carriera, Franca Valeri si sofferma sul significato del teatro, e quel che dice, malgrado le cautele della premessa, va ben oltre il concetto di lezione: “Fondamentale è il rigore del rapporto tra parola e pensiero. Le parole si affollano per essere scelte, ma non è per tutte poter salire su un palcoscenico. Al teatro servono parole precise, capaci di rivelare in partenza l’inquietudine di appartenere a una voce.
Rispetto alle sedi istituzionali del sapere, il teatro concede a chi vi assiste la possibilità di non capire subito. Nel pubblico che sfolla serpeggia il dubbio di una riflessione che gli è stata imposta. Ne vuole parlare mentre si infila il cappotto. Molti vorrebbero forse leggere quello che hanno sentito, più spesso il sospetto di una rivelazione si disperde una volta saliti in macchina. Ma non è così, noi insegniamo a tradimento.”
Noi insegniamo a tradimento…
Franca conclude offrendo la sua interpretazione del perché una forma d’arte così antica resista al passaggio del tempo, alla modernità che sembra travolgere tutto: “Il teatro è la bella copia della vita. Il male lì è più punito, il bene è più premiato, il vizio è deriso, l’amore è eterno, la morte è finta.”
Anche lei resiste al tempo. La sua intelligenza non dà segnali di cedimento. C’è qualcosa di miracoloso nel cervello di Franca, qualcosa di profondamente refrattario alla crudeltà della vecchiaia. Mentre il corpo è costretto a soccombere, la mente non si arrende, combatte contro le gambe stanche, gli occhi quasi spenti, l’udito sempre più ridotto, e lavora, lavora, lavora… “Un conto è parlare con se stessi, un conto è parlare col proprio corpo. Non sono in lui necessariamente, io. Lui decade, io no.”
È una frase tratta da La vacanza dei superstiti, pubblicato nel 2016: dunque fate un po’ il conto, a novantasei anni. Cento pagine di pensieri, aneddoti, riflessioni, divagazioni sulla vita, la morte, l’amore. In alcuni passaggi si sfiora la massima densità filosofica: “Come dirglielo, a quel ragazzo ventenne, che ci è bastato essere molto sicuri delle nostre idee per entrare in quelle degli altri?” o ancora: “Come farò a raccontare quello che vedo? Torno al concetto del poter raccontare. Non manca forse solo il tempo, è che il racconto perde verità mentre riproduce la sua storia, tu che l’hai vissuta la senti come un racconto. Da una parte va verso la verità, dall’altra ha conquistato la fantasia. La vita in parte si vive, in parte s’inventa. Bisogna scegliere cosa ricordare.”
Ho partecipato varie volte ai festeggiamenti per il compleanno di Franca. Per l’occasione leggevamo brani dai suoi libri, sul grande terrazzo o nelle sale di Villa d’Este a Tivoli, e il pubblico era letteralmente rapito dalla sottigliezza lampeggiante di quei testi e dalla vitalità della vecchia attrice che assisteva sorniona in prima fila, col suo cagnolino Roro tra le gambe.
Una volta, una signora che era sicuramente una sua ammiratrice, al termine delle letture ha avuto il coraggio di rivolgerle una domanda maliziosa, quasi sfacciata: “Mi scusi, ma lei non ha mai sofferto per il fatto che, al cinema, le hanno sempre riservato la parte della bruttina?” (Per esempio, nel film di Risi Il segno di Venere, dove in effetti le avevano messo accanto Sofia Loren…!). Franca Valeri non si è scomposta per l’osservazione irriverente, ha avuto un lampo negli occhi e ha risposto a tono.
Il fatto che adesso parli a scatti, lentamente, scandendo le sillabe di ogni singola parola, accentua l’effetto delle sue battute, crea un tempo comico irresistibile. Ricordò di aver cominciato la sua carriera di attrice a Parigi. “E a dir la verità… non ero così male… anzi… a quei tempi i francesi mi consideravano… e lo avevano scritto anche sui giornali… be’, sì… un vero bocconcino.” Risate del pubblico, applausi, anzi un’ovazione, e la vendetta dell’intelligenza su tutti gli stereotipi della femminilità.
I festeggiamenti per il compleanno proseguivano al ristorante, insieme agli amici più cari. Ognuno di noi pensava in cuor suo che il successivo non sarebbe stato così scontato, e ci sembrava comunque una grazia potere essere presenti, di fronte a una torta, a battere le mani, e gridare auguri per i novantacinque, e poi batterle ancora più forte per i novantasei, a commuoverci per i novantasette e infine a credere, per i novantotto, il 31 luglio 2018, che la natura di Franca sia divina, e dunque eterna.
Sono state scattate molte belle fotografie quella sera d’estate, l’evento era storico. Nella più sorprendente, la festeggiata tiene in braccio un bambino di pochi mesi. È il figlio di Urbano, e Franca lo stringe a sé commossa. In quell’abbraccio straordinario si uniscono tre, forse quattro, forse infinite generazioni.
Dal capitolo: Three old ladies
Estratto da CORPI SPECIALI di Francesca d’Aloja, La nave di Teseo, Milano 2019