In questo eterno giorno della marmotta non è Conte, però, l’elemento davvero sorprendente. Sono i suoi alleati.
Comunque la si pensi su una certa retorica dei sacrifici necessari e delle scelte dure e impopolari di cui i governi di centrosinistra hanno spesso abusato, non può non colpire, sin dalla nascita di questo esecutivo, un radicale cambiamento nel discorso pubblico delle forze progressiste, il cui messaggio è divenuto difficilmente distinguibile – almeno sul terreno economico-sociale – da quello dei predecessori gialloverdi.
Una continuità con il governo precedente ancora più significativa perché fa il paio con l’assoluta continuità legislativa, e al tempo stesso fa a pugni con quanto Pd, Iv e Leu dicevano di quegli stessi provvedimenti, prima di sottoscriverli e confermarli tutti. Il succo del messaggio si può riassumere in un principio guida semplicissimo: per uscire dalla crisi nessuno dovrà fare il benché minimo sacrificio. Anzi, complice la tragica dinamica di una maggioranza a guida populista incalzata da un’opposizione ultra-populista come quella di Matteo Salvini, anche la crisi del coronavirus – come abbiamo notato a suo tempo su queste pagine – è diventata motivo di una gara a chi la spara più grossa tra le forze politiche, neanche si trattasse di una vincita al totocalcio.
E lo vediamo bene in questi giorni, tra Salvini che si dice pronto a fare le barricate contro inesistenti tentativi di intervenire su età pensionabile, spesa pubblica o fisco, e Luigi Di Maio che nella sua prima intervista dopo il vertice europeo dichiara: «Ora giù le tasse». Una dinamica che purtroppo ha scandito l’azione di governo sin dal primo giorno, quindi già diversi mesi prima del Covid, ma che la crisi provocata dall’epidemia ha portato subito al parossismo, con fior di ministri a ripetere per prima cosa, ad esempio, che nessuno avrebbe perso il lavoro a causa del virus. Promessa ovviamente insostenibile.
È abbastanza sconvolgente l’idea che di fronte a una situazione economica pre-fallimentare – stando a come gli stessi partiti di centrosinistra la descrivevano fino a un minuto prima di entrare nel governo, cioè ancora prima del coronavirus – a nessuno dei ministri e dirigenti del Pd, Italia viva o Leu sia venuto in mente di accennare anche solo all’ipotesi che qualcuno dovrà rimetterci qualcosa, fare un piccolo sforzo, cambiare qualche abitudine. Macché.
Persino degli evasori e dei lavoratori in nero si è parlato solo per dire che anche a loro si sarebbero dovuti elargire congrui aiuti (e per carità, ci mancherebbe che qualcuno venisse lasciato morire di fame). Ma insomma non è possibile che da un anno, con il pil lanciato in direzione meno undici per cento, in Italia si discuta solo di quanti miliardi mettere qui e di quanti fantastiliardi mettere lì, di quanto abbassare le tasse agli uni e di quanto aumentare i sussidi agli altri. C’è un problema con Ilva, peraltro creato dalla stessa maggioranza? Nazionalizziamola. Alitalia non va? Ce la ricompriamo. Non c’entrano le valutazioni, tutte legittime, sull’esito del vertice europeo o sul modo migliore di impiegare quelle risorse.
Con tutto il giustificatissimo entusiasmo per la solidarietà europea, la domanda è: possibile che noialtri non si debba fare proprio niente? Non è questione di essere liberisti o keynesiani, a favore della patrimoniale o del taglio della spesa pubblica, per l’innalzamento dell’età pensionabile o per vere misure anti-evasione. Il problema sta a monte, e non c’è bisogno di essere un economista per capirlo, per lo stesso motivo per cui non c’è bisogno di essere un dietologo per capire che una dieta a base di zucchero filato, alla lunga, non può funzionare.
E finché nella maggioranza non si uscirà da questa dinamica, in cui la prima risposta a ogni problema è «torta al cioccolato per tutti!» e la seconda è «due torte!» – mentre Salvini dalle piazze urla che l’Europa ci ha rubato la panna – con tutta la buona volontà, è davvero difficile immaginare che l’Italia possa tornare presto in ottima salute.