Who What WineClean wine, i vini di Cameron Diaz hanno alzato un polverone

“Clean, vegan wine without all the extras”, è così che si presenta il progetto che più ha fatto discutere il mondo del vino nelle scorse settimane: le nuove etichette dell’attrice Cameron Diaz e dell’imprenditrice Katherine Power, nota per aver fondato il gruppo mediatico Clique e il brand di abbigliamento Who What Wear

Avaline viene proposto nelle versioni bianco e rosato. Il primo viene prodotto in Catalogna a partire da un blend di varietà locali come lo xarel·lo, il macabeo e la malvasia, e il secondo nel sud della Francia, in Provenza, a partire da cinsault, grenache e altri vitigni tipici della zona. Soprattutto sono vini che vengono presentati come “puliti”, che non contengono alcun additivo: «Come produttori non siamo tenuti a dire molto a proposito di quello che c’è dentro le nostre bottiglie, ad Avaline abbiamo deciso di farlo (…) i produttori di vino rivelano solo informazioni quali il luogo di coltivazione e di imbottigliamento, se il vino contiene solfiti e la percentuale di alcol. Non vi è alcun obbligo di specificare come vengono coltivate le uve o di nominare anche solo uno degli oltre settanta additivi utilizzati nel processo di vinificazione per alterare colore, odore e sapore di ciò che si trova poi nel bicchiere. Noi crediamo sia necessario darsi degli standard più elevati.»

Si tratta del nuovo progetto lanciato da Cameron Diaz e Katherine Power, annunciato su Instagram come rivoluzionario perché onesto, capace di portare una ventata d’aria fresca in un mondo del vino a loro dire fin troppo opaco nel comunicare al consumatore il procedimento produttivo che c’è dietro ogni bottiglia. Vini quindi prodotti a partire da uve biologiche, coltivate senza l’uso di prodotti di sintesi. E ancora: vegani (non sono stati usati prodotti derivanti dal mondo animale come per esempio l’albumina o la caseina, dei chiarificanti), senza additivi, senza zuccheri, senza coloranti.

Non sono certo questi i primi vini a giocare con il termine “clean”. Prima di Avaline già Good Clean Wine e The Wonderful Wine Company avevano per esempio provato a far nascere nel consumatore un’associazione di carattere binario, che utilizzando un termine del genere fa automaticamente pensare a tutti gli altri vini come “dirty”, sporchi. Di sicuro si tratta però di quello che ha avuto più attenzione, un interesse che è sfociato in un ricco dibattito intorno a questa operazione così smaliziata, così furba o così sfacciata, a seconda del tenore delle critiche che le sono state rivolte.

Il problema è che i vini prodotti in questo modo, senza cioè un uso invasivo di prodotti enologici, sono tantissimi: la stragrande maggioranza di quelli che vengono comunemente considerati come di qualità. Attenzione: esiste un numero molto ampio di bottiglie figlie di un grande interventismo, vini che hanno subito trattamenti di carattere industriale volti a farli risultare nel bicchiere sempre uguali a se stessi. Tanti di questi sono quelli che al supermercato costano meno, pochi euro a bottiglia o al litro, prodotti anche in milioni di bottiglie e diffusi un po’ in tutto il mondo. Non sono questi però quelli con cui cui Avaline aspira a competere, visto anche il prezzo di uscita negli Stati Uniti di 24 dollari a bottiglia.

«Dopo aver bevuto un bicchiere di vino rosso la lingua o i denti tendono al viola? Ecco a cosa mi riferisco», sostiene Cameron Diaz, «non è una cosa naturale, si tratta di un effetto di un colorante chiamato Mega Purple». Le cose però non stanno proprio così, anche gli antociani naturalmente presenti nei vini rossi possono in una certa misura lasciare tracce del loro passaggio, in bocca. Soprattutto, ed è questo il motivo del dibattito di queste settimane, Avaline non sembra essere così più puro di tanti altri vini, soprattutto se si prende come riferimento il mondo dei vini naturali.

Questo bianco e questo rosato rispettivamente catalano e provenzale vengono infatti prodotti utilizzando una quantità di anidride solforosa inferiore ai 100 mg/litro, dose certamente minore rispetto a molti vini industriali, ma ancora piuttosto elevata. VinNatur, la maggiore associazione italiana di viticoltori naturali, ne permette l’uso fino a 50 mg/litro per i bianchi e 30 mg/litro per rossi e rosati. Non solo: come dichiarato sul sito di Avaline in fase di vinificazione per l’uno o per l’altro vengono utilizzati prodotti quali lieviti selezionati con relativi nutrienti (per favorire la fermentazione), bentonite (per chiarificare), proteine vegetali (per chiarificare e per stabilizzare), bitartrato di potassio o cremor tartaro (sempre per stabilizzare). Niente di così stupefacente, sono tutti prodotti conosciuti e largamente utilizzati nell’enologia contemporanea, qualunque appassionato di vini naturali considererebbe però il loro uso come un intervento particolarmente invasivo, che andrebbe a stravolgere il senso stesso del lavoro del vignaiolo. Da una parte quindi ci si trova con un tentativo sicuramente virtuoso di trasparenza, da parte di Avaline. Dall’altra con due vini che non rispettano praticamente nessuno standard relativo alla produzione dei vini naturali, il riferimento da prendere nel parlare di assenza di interventismo di carattere enologico.

Tutto quello che mangiamo e che beviamo, se confezionato, deve riportare in etichetta la lista degli ingredienti. Non il vino, caso più unico che raro. Una situazione che ha spianato la strada a chi, più spregiudicato di altri, ha deciso di trarre profitto sostenendo che il mondo è pieno di vini contenenti sostanze chimiche nocive per la salute. Non è così.

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