Fare un vino è operazione complessa, che ha tanti passaggi delicati e spesso non conosciuti. Uno di questi è il diradamento, che consiste nell’eliminare dalla pianta i grappoli in eccesso, per permettere a quelli che rimangono di crescere meglio e concentrare su di essi tutte le sostanze nutritive – e quindi aromatiche – che servono per produrre un nettare sempre più buono. Molti disciplinari del vino prevedono un massimo di resa per ettaro delle vigne: il diradamento è quindi parte integrante del processo di produzione.
È un processo che va fatto manualmente: si tratta infatti di scegliere quali siano i grappoli più maturi e quindi più idonei ad una produzione di alta qualità. Spesso occorrono più passaggi, nei quali si eliminano solo porzioni di grappolo. Un’operazione complessa e dai costi di esecuzione molto elevati. Il diradamento avviene quando l’uva è ancora acerba: si lascia sul terreno uno scarto non utilizzabile importante, che nella maggior parte dei casi viene eliminato.
Ma c’è qualcuno che è riuscito a inventare un modo per trasformare questo residuo di lavorazione -indispensabile per ottenere un vino con caratteristiche e qualità elevate – in un capolavoro gourmet, sottolineando quanto la sinergia chef-agricoltura sia sempre più una necessità, ancora prima che una tendenza.
Abbiamo incontrato chef contadini nelle Langhe: gli orti del tristellato Enrico Crippa prima e del bistellato Michelangelo Mammoliti poi sono dei laboratori a cielo aperto, dove i due creano e prendono ispirazione, seguono i ritmi naturali per una cucina che è sempre più un mix tra naturalità e creazione intellettuale.
E c’è un orto anche a Venissa, dove Chiara Pavan insieme a Francesco Brutto sono sempre più portati a inserire nei loro pensieri gastronomici la priorità naturale, arrivando anche a creare con l’uva acerba un predessert per il loro ristorante. «In questo periodo abbiamo decine e decine di chili di uva Dorona acerba. In parte la fermentiamo in brina, ogni anno, e poi la usiamo nel nostro “spago oro”, preparato con dashi di palamita, garum di sarde e succo di Dorona acerba fermentata. Quest’anno in più ci è venuta questa idea di fare i ghiaccioli come predessert. Volevamo dare qualcosa di acido e fresco per pulire la bocca prima del dessert e ci è venuto in mente un ghiacciolo. All’inizio abbiamo provato a farlo con le erbe, poi invece è saltata fuori questa idea della Dorona acerba. Quindi estraiamo il succo, prima passando l’uva al tritacarne e poi al torchio, quindi lo aggiustiamo di acidità e dolcezza con uno sciroppo al 65%, fino ad ottenere una dolcezza di 19 brix. Lo congeliamo e infine lo rivestiamo con un sottile strato di burro di cacao e liquirizia».
A raccontarci l’idea è Chiara Pavan, giovane e brillante mente di un luogo sospeso tra laguna veneziana e campagna: il ristorante è sulla piccola isola di Mazzorbo, dove sorge un vigneto antico, riscoperto dalla famiglia Bisol e riportato agli antichi splendori con un lavoro certosino di ricerca condotta in laguna.
Prosegue Pavan: «La cucina che facciamo cerca di essere l’espressione del luogo in cui ci troviamo a lavorare, cioè la laguna, e ancora più in particolare la tenuta “Venissa”. Il primo obiettivo è che l’ospite che si siede alla nostra tavola percepisca una forte coerenza tra il luogo che sta visitando e i piatti che mangia. La nostra cucina ha determinate caratteristiche in questo luogo, e sicuramente non avrebbe lo stesso stile se ci trovassimo a cucinare altrove. È, cioè, una cucina fortemente ambientale. Il termine ambientale è calzante in duplice senso: da un lato perché appunto descrive la dipendenza da parte di uno stile di cucina dall’ambiente che la circonda e dall’altro perché denota l’attenzione maniacale e oltremodo attuale per la “questione ambientale”».
Che per i due chef è fondamentale: «Abbiamo scelto, già da un po’ di tempo, e più radicalmente quest’anno, di essere indipendenti nella produzione del vegetale. Abbiamo tre orti e ci appoggiamo all’orto biologico di un nostro amico per quello che non riusciamo a produrre direttamente. Questo ci permette da un lato di aderire alla scelta del km 0, non producendo inquinamento di trasporto, dall’altro di esprimere al meglio il nostro territorio: le verdure che produciamo in laguna hanno decisamente un sapore diverso, più sapido, marittimo. La sapidità, va sottolineato, è il gusto che abbiamo deciso di rendere protagonista nel nostro menu, perché, appunto, secondo noi meglio esprime i caratteri della laguna».
Una scelta radicale anche nella parte più strettamente produttiva: «I nostri orti sono coltivati in biologico e spesso scegliendo semi “liberi”, autoproducendoli e seguendo il metodo del rimescolamento. Il vegetale è, di fatto, il grande protagonista del nostro menu. Talvolta, anche il pesce è solo l’accompagnamento del vegetale, fungendo da texture. Questo anche, anzi forse in primis, per una “questione ambientale”. Crediamo infatti che la tendenza a mangiare sempre di più vegetale sarà e dovrà essere dominante in futuro. Una dieta ricca di proteine animali – possibile solo grazie agli allevamenti che sono tra le prime cause del global warming – non sarà più sostenibile a livello ambientale e saremo costretti a rivolgerci prevalentemente ai prodotti della terra. Coscienti di questo, Francesco ed io, attraverso l’autoproduzione, e la presenza di piatti vegetariani e vegani in menu, stiamo cercando di dare voce a questa esigenza di un futuro non così lontano».
L’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità passa anche attraverso i materiali usati in cucina: «Nella nostra cucina non si usa mai la plastica usa e getta, questo significa che abbiamo eliminato completamente l’uso della pellicola e dei sacchetti sottovuoto sia per le cotture e le conservazioni – eventualmente sostituiti dal vetro – sia per lo stoccaggio, che avviene in modo limitato e usando esclusivamente scatole ermetiche o vasi di vetro con la tecnica della pastorizzazione. I nostri fornitori, inoltre, non usano imballaggi in plastica per il trasporto della merce come il pesce e i latticini, e la gestione dei rifiuti organici avviene anche mediante compostaggio nel campo».
Ma si arriva anche a gestire con sapienza tutte le materie prime: «Lo scarto in cucina è nullo. Il compost ci permette di “rendere vitali” le parti vegetali non utilizzate e i gusci delle uova, e molti scarti inoltre vengono utilizzati nelle fermentazioni. La tecnica delle fermentazioni, predominante in questi ultimi menu, ci ha permesso quindi di ottenere un duplice risultato: da un lato ottenere gusti sapidi e acidi, molto consoni al modo in cui noi vogliamo descrivere l’esperienza della laguna attraverso il cibo; e dall’altro di non fare scarto. Il garum di sarde, ad esempio, è prodotto grazie a teste e lische delle sarde, produciamo altri garum di scarti e anche, ad esempio, un miso di pane, con il pane vecchio. Tutta la frutta e la verdura che produciamo in eccesso ha trovato, nelle fermentazioni, un ottimo e antico metodo di conserva, che non necessita peraltro dell’uso di plastica e consumo di energia elettrica per il mantenimento nei freezer. Le fermentazioni vegetali sono inoltre, secondo noi, un grande cibo del futuro, perché ricche di fermenti lattici che vanno a nutrire la flora batterica del nostro organismo. Chi studia il microbiota intestinale in medicina, sostiene che una dieta attenta alla flora batterica è la base della medicina preventiva e noi ci crediamo!».
Un pensiero sostenibile e circolare, attento e concreto, che dimostra quanto le giovani generazioni stiamo cambiando in maniera potente la visione della cucina, anche quando si tratta di piatti stellati: «La nostra cucina si basa su idee di etica e sostenibilità ambientale rispetto al lavoro della ristorazione in cui si ha a che fare con la materia in modo purtroppo consumistico, nel senso effettivo di consumo eccessivo delle risorse. Si basa inoltre sull’attenzione “estetica” nei confronti del territorio in cui ci troviamo ad operare: cucinando proviamo ad esprimere attraverso i sensi, soprattutto del gusto, l’esperienza di un territorio. E per ultimo, ma non in ordine di importanza, la nostra cucina è una cucina di laboratorio: soprattutto Francesco passa le sue ore, come un alchimista, con microscopi, fermentatori, rotavapor, macchine a pressione e sonicatori, a sperimentare, creare sapori e nuove tecniche».