Una recente intervista di Arundhati Roy, attivista indiana in questioni sociali, politiche e ambientali nonché scrittrice e saggista di fama internazionale che con il suo primo romanzo, “Il dio delle piccole cose”, vinse il Man Booker Prize 1997, mi ha molto ispirato per alcune riflessioni e incuriosito nella lettura dell’ultima raccolta di saggi pubblicata con il titolo “Azadi”.
Derivante dal persiano, azadi è una parola che significa libertà in molte lingue, ad esempio in luri, pashto, curdo, hindko e baluchi, ma è usata anche in altre come l’armeno (Azad), o come l’azero, l’hindi, l’urdu, il punjabi, il bengalese e il kashmir. Il termine è entrato anche nel lessico degli attivisti coinvolti nei diritti dei rifugiati e nei diritti della diaspora mediorientale nel mondo occidentale, ad esempio nel film australiano “Azadi”. Ed è anche un grido che ha invaso le strade del Kashmir contro quella che è considerata l’occupazione indiana.
Dunque, nella prefazione del suo saggio Azadi, Roy scrive: «Il Coronavirus ha portato con sé una nuova, terribile incarnazione di Azadi: il “Virus Libero” che ha ridicolizzato le frontiere internazionali, incarcerato interi popoli e immobilizzato il mondo moderno come niente prima era riuscito a fare, gettando una nuova luce sulla vita che abbiamo condotto fino a oggi e costringendoci a mettere in dubbio i valori su cui abbiamo costruito le società moderne, ciò che abbiamo deciso di idolatrare e ciò che abbiamo preferito trascurare. Nel varcare questo portale per entrare in un mondo nuovo, dovremo chiederci che cosa vogliamo portare con noi e che cosa ci lasceremo alle spalle».
Al di là dell’immagine altamente suggestiva che l’autrice sceglie per mostrarci la potenza di un virus che libero da ogni umana convenzione, restrizione, legge o frontiera ferma tutte le nazioni prendendosi la libertà di rinchiuderci nelle mura domestiche in un contesto di isolamento inconfutabile, quello che vorrei mettere in rilievo è il passaggio conclusivo. Quello in cui l’autrice si interroga e ci interroga su cosa vorremmo portare con noi attraversando questo portale che si apre sul mondo che verrà.
Invece noi, da settimane a questa parte, ci stiamo sempre più orientando verso un ritorno alla normalità. Ne abbiamo fatto anche una hit estiva, una sorta di inno confortante, un grembo materno al quale abbracciarsi per fare scomparire le nostre paure, un mantra da ripetere per allontanare da noi lo spaventoso lupo cattivo.
Eppure, mentre eravamo tutti chiusi nelle nostre galere domestiche, per molti anche dorate, abbiamo visto bruciare il Brasile, la California e l’Australia e fondere l’Artico al calore dei 38 gradi toccati. Ci siamo commossi per una frazione di secondo e a solo beneficio dei nostri follower per quel passaggio di delfini a Venezia o per il cinguettio degli uccelli udibile per la prima volta dai palazzi di città. Salvo poi normalizzare l’impennata dell’inquinamento una volta riaperti usci e portoni, perché è bello tornare alla nostra amata normalità. Una normalità che è fatta di suolo, fiumi, mari e foreste avviati a un rapido quanto incontestabile degrado. Perché, diciamocelo chiaramente, la nostra normalità è fatta di consumi che aumentano sempre più.
Allora vediamo chiaramente quanto sia essenziale, in questo momento di passaggio dal mondo pre-covid a quello post-covid, scegliere cosa intendiamo portare con noi e cosa no. Non è un abbaglio di poco conto quello che ci sta spingendo a preferire la nostra “solita normalità” a cui siamo attaccati come lo è Linus alla sua coperta.
Questa normalità che vogliamo ripristinata, in quanto ci appare oggi come il miglior mondo possibile dopo mesi di privazioni e in piena crisi economica e valoriale, è esattamente lo stesso sistema che stavamo finalmente mettendo in discussione attraverso azioni politiche mirate a un green new deal, cioè a una precisa e rigorosa agenda di azioni orientate alla costruzione di società più eque e inclusive, basate su economie che producono prosperità per l’insieme e che incentivano consumi più sostenibili per il benessere di tutti e nel rispetto del pianeta e delle sue risorse.
La domanda che tutti dobbiamo porci è dunque, qual è la normalità che può veramente garantire conforto?