Elezioni in MontenegroI socialisti filo-occidentali hanno vinto, ma potrebbe nascere il primo governo (in parte) pro-russo

Qualunque sia l’epilogo della saga parlamentare, l’inatteso exploit delle forze politiche serbo-ortodosse ha mostrato la fragilità della fede atlantista di questa repubblica adriatica. L’occidentalizzazione non è un processo irreversibile: Bruxelles e Washington sono avvisati

Le elezioni di domenica 30 agosto in Montenegro hanno prodotto un quadro politico estremamente frastagliato. Vige una sostanziale parità tra le forze del governo uscente e le opposizioni,  presentatesi divise alle urne ma dichiaratesi pronte ad allearsi post-voto per sostenere un governo di transizione. Uno sguardo ai numeri. Secondo i dati definitivi pubblicati dalla Commissione elettorale, il Partito democratico dei socialisti del Montenegro (Pds) del presidente Milo Đukanović, di orientamento europeista e filoccidentale, è risultato la formazione più votata, ottenendo 30 seggi sugli 81 in palio, ma per la prima volta nella storia del paese avrebbe difficoltà ad aggregare una maggioranza parlamentare. Anche coinvolgendo gli alleati tradizionali (piccole fazioni progressiste e partiti etnici), la coalizione post-elettorale guidata dal Pds disporrebbe solo di 40 seggi, uno in meno della soglia necessaria a formare il governo. Una novità assoluta.

Fino a queste elezioni il Pds e il suo leader avevano goduto di un’egemonia incontrastata. Da soli o in coalizione, i socialisti hanno governato pressoché ininterrottamente fin dalle prime elezioni multipartitiche organizzate nel paese balcanico (1990). E tranne durante alcuni sporadici ritiri dalla vita pubblica (ufficiale), coincisi con la nomina di qualche suo fedelissimo, Đukanović ha ricoperto alternativamente la carica di primo ministro o quella di presidente fin dal 1991.

Premiate anche dalla più alta affluenza (76%) mai registrata da quando il Montenegro ottenne l’indipendenza (2006), le opposizioni hanno conseguito un risultato di molto superiore alle aspettative: la coalizione Per il futuro del Montenegro ha conquistato 27 seggi,  La pace è la nostra nazione dieci e Bianco e Nero quattro. Se si alleassero, queste tre formazioni avrebbero quindi i numeri per governare (41 seggi). I loro leader sono adesso impegnati in contrattazioni frenetiche e hanno già aperto alla possibilità di includere anche le formazioni etniche che hanno storicamente sostenuto Đukanović per battezzare un’ampia alleanza che vada a sostenere un esecutivo tecnico

. Le divergenze tra le tre coalizioni – già molto eterogenee al loro interno – sono notevoli, ma la possibilità di detronizzare il Pds per la prima volta potrebbe rivelarsi un incentivo sufficiente per metterle in secondo piano, almeno temporaneamente. Con numeri così ravvicinati, al momento non si esclude nessuno scenario: un paio di cambi di casacca basterebbero per ribaltare gli equilibri parlamentari.Anche prescindendo da quali forze comporranno effetivamente l’esecutivo, dalle urne è già emerso un dato molto significativo: la profonda spaccatura tra la maggioranza montenegrina (circa il 45% della popolazione) e la minoranza serba (circa il 29%), che rappresenta anche il cuore della comunità ortodossa del paese, dove sulla carta il 72% dei cittadini si dichiara di tale fede.

La distribuzione del voto ha infatti ricalcato con buona approssimazione l’appartenenza nazionale: la maggioranza dei montenegrini ha votato per il Pds, mentre i voti serbi (e dei montenegrini più devoti) sono andati perlopiù alle coalizioni Per il futuro del Montenegro e La pace è la nostra nazione

La causa primaria per il sensibile deterioramento di tali equilibri etnico-religiosi avvenuto durante l’ultimo anno è stata la controversa legge sulla libertà religiosa, licenziata dal parlamento lo scorso dicembre. La norma imporrebbe inter alia ai rappresentanti di tutti i culti ufficialmente riconosciuti nel paese di dimostrare che la proprietà degli edifici di cui ora dispongono sia antecedente al primo dicembre del 1918, anno in cui il Regno del Montenegro venne inglobato nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Essendo la produzione di questi documenti spesso macchinosa dopo di un secolo di guerre, occupazioni e continui cambi di regime politico, i pope hanno denunciato la legge come il preludio alla nazionalizzazione degli edifici gestiti dalla chiesa ortodossa, una manovra congegnata, secondo loro, ad hoc per colpire la minoranza serba. 

L’approvazione della norma aveva allora scatenato imponenti proteste popolari, guidate dagli esponenti del clero montenegrino, in primis dal metropolita Amfilohije, rappresentante in loco della Chiesa ortodossa serba. Temporaneamente sospese a causa delle limitazioni imposte a movimenti e assembramenti per contenere la propagazione del coronavirus, le manifestazioni erano riprese con immutato vigore subito dopo il parziale allentamento delle restrizioni. 

Il voto di domenica scorsa, che ha visto l’inedita partecipazione attiva dei chierici, ha quindi rappresentato il climax di mesi di retoriche incendiarie. Il presidente Đukanović aveva presentato questa tornata come “la più importante nella storia del Montenegro” in quanto gli elettori sarebbero stati chiamati a decidere se “proseguire sulla strada verso l’Ue o fondare uno Stato teocratico”. Il metropolita Amfilohije aveva invece accusato il governo montenegrino di essere animato da un’ideologia “che fonde il peggio del comunismo con il peggio dell’Occidente” consacrata alla “lotta contro l’ortodossia”. 

Nel meno popoloso degli Stati post-jugoslavi – in Montenegro vivono poco più di 620 mila abitanti – queste schermaglie trascendono la politica interna e assumono una vivida connotazione geopolitica. 

Questo perché la minoranza serba resta molto ostile all’entrata nell’Ue e preferirebbe il mantenimento di una posizione più equilibrista, simile a quella che si sforza di tenere la Serbia. Secondo la maggioranza dei serbi e degli ortodossi che vivono nel paese, il Montenegro dovrebbe tutelare la propria identità slava e ortodossa. Ovvero affiliarsi alla Russia. 

Esattamente la direzione opposta a quella seguita da Podgorica dopo essersi staccata dalla Serbia (2006) in un referendum vinto dalla fazione pro-indipendenza con un margine molto risicato (55.5%): già sei anni più tardi il Montenegro iniziò ufficialmente i negoziati di adesione all’Ue e nel 2017 è entrato nella Nato. 

Qualora fossero le opposizioni a formare il governo, la linea pragmaticamente pro-Nato e pro-Ue persguita finora da Podgorica potrebbe venire sabotata. Rompendo il meccanismo su cui si è finora retto il sistema di potere di Đukanović.

Allineando il paese in toto al blocco occidentale, il presidente e la sua cerchia si sono garantiti mano libera in patria, dove hanno allestito un esempio classico di “autoritarismo competitivo”: un sistema istituzionale pseudo-democratico dove le elezioni sono relativamente libere, ma il vincitore non è mai davvero in dubbio, come infatti non era mai accaduto prima di questa votazione. Il più recente report di Freedom House aveva classficato il Montenegro come un “regime ibrido”. 

Che la dirigenza montenegrina sia invischiata in, o quantomeno vicina a, ambienti criminali è stato ampiamente dimostrato. Addirittura, nel 2015 lo stesso Đukanović venne nominato dall’autorevole sito di giornalismo investigativo Occrp “uomo dell’anno del crimine organizzato e della corruzione”. 

Non può allora stupire molto che proprio questi due ambiti, crimine organizzato e corruzione (capitoli 23 e 24 dei negoziati di adesione all’Ue), siano quelli dove Podgorica si è finora dimostrata più deficitaria, secondo i report della Commissione europea.  

La Nato, invece, in Đukanović ha trovato un alleato fedele, pronto a fare di tutto per rintuzzare le offensive della Russia, nonostante una fetta così consistente della popolazione montenegrina guardi a Mosca con simpatia.  Per l’Alleanza atlantica l’ingresso di Podgorica era stato un colpo da biliardo magistrale. Accolto il Montenegro, sia la costa orientale che quella occidentale del Mar Adriatico erano passate interamente sotto controllo della Nato, dove già sedevano Italia, Croazia, Slovenia e Albania, eccezion fatta per un fazzoletto di Bosnia Erzegovina (Neum).  

L’ira del Cremlino si era concretizzata in un goffo tentativo di golpe effettuato durante le precedenti elezioni (2016) proprio per scongiurare l’adesione al sodalizio atlantista di questo staterello piccolo ma decisivo. L’effettivo coinvolgimento della Russia non è mai stato provata inequivocabilmente, ma non è un mistero che Mosca abbia mal digerito il volte-face di uno Stato fino a poco tempo prima così amichevole. 

Qualunque sia l’epilogo della saga parlamentare, l’inatteso exploit delle forze politiche serbo-ortodosse ha illuminato nitidamente la fragilità della fede atlantista di questa repubblica adriatica. L’occidentalizzazione non è un processo irreversibile: Bruxelles e Washington sono avvisati.  

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