Inside BelgradoLo strano caso della Serbia che gioca in bilico tra Bruxelles, Washington, Pechino e Mosca

In Europa nessuno eccelle nell’arte dell’equilibrismo come Belgrado, la cui politica estera si può riassumere nel tentativo di essere allo stesso tempo parente dell’Unione europea, amica degli Stati Uniti, sorella della Cina e figlia della Russia

Afp

In Europa nessuno eccelle nell’arte dell’equilibrismo come la Serbia. La sua stratificata politica estera si può riassumere nel tentativo di essere allo stesso tempo «parente dell’Unione europea, amica degli Usa, sorella della Cina e figlia della Russia». L’emergenza Covid19 ha fornito a Belgrado un’occasione d’oro per puntellare questa precaria posizione geopolitica.  

Come il resto dei Balcani occidentali, sulla carta la Serbia è destinata a entrare nell’Unione europea. Ha ricevuto lo status ufficiale di “paese candidato” nel 2012 e aperto i negoziati l’anno seguente. Dei diciotto capitoli previsti dal percorso di adesione ne ha per ora chiusi due, sebbene dopo la drastica revisione del processo di allargamento svelata a febbraio dal commissario Olivér Várhelyi, questo dato sia adesso poco significativo.

Il capitolo più ostico per la Serbia è la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, l’ex provincia meridionale dichiaratasi unilateralmente indipendente nel 2008 e tuttora non riconosciuta da numerosi Stati – tra cui Russia e Cina. Serbi e kosovari hanno accettato di partecipare a un’iniziativa diplomatica mediata dall’Ue, il dialogo Belgrado-Pristina, finalizzata ad appianare le loro svariate divergenze, ma dopo alcuni traguardi importanti (l’accordo di Bruxelles nel 2013), negli ultimi anni si è registrata una marcata involuzione.  

Sul piano economico, l’Ue nel suo complesso è il principale partner commerciale della Serbia (67 per cento export, 58 per cento import). E anche durante la pandemia Bruxelles è stato l’attore che ha più aiutato Belgrado: nel quadro di un intervento a sostegno dei Balcani occidentali, il 30 marzo la Commissione ha stanziato 15 milioni per aiutare la Serbia a fronteggiare l’emergenza, cui si sono aggiunti altri 78 milioni riallocati dai fondi per l’adesione (Ipa). Tuttavia, il presidente Aleksandar Vučić non ha risparmiato dure critiche all’azione comunitaria, bollandola come tardiva e poco solidale.

Proprio il giorno in cui la Serbia dichiarava lo stato d’emergenza (15 marzo), la Commissione europea imponeva limiti all’esportazione di prodotti sanitari fuori dall’Ue, suscitando lo sdegno di molti Stati limitrofi. Inoltre, la Serbia è stata l’unica tra i potenziali beneficiari a non fare richiesta dei prestiti a tasso agevolato garantiti dall’Ue ai paesi dell’allargamento e del vicinato a fine aprile. 

L’impressione che Bruxelles non riesca a convertire l’egemonia di cui gode in campo economico-finanziario in capitale politico emerge nitidamente dai sondaggi dell’opinione pubblica. Una rilevazione effettuata a dicembre ha mostrato che solo il 26 per cento dei serbi identifica l’Ue come l’attore che più ha contribuito allo sviluppo del paese dal 2000 a oggi.

Ampi segmenti della popolazione ritengono che ad aiutare in Serbia siano invece soprattutto Russia (23 per cento) e Cina (20 per cento), sebbene i due abbiano investito circa 100 volte di meno del blocco comunitario. Percezioni popolari che verosimilmente usciranno rafforzate dall’emergenza coronavirus.   

Pechino ha infatti colto la palla al balzo per cementificare la propria liason con Belgrado, tramite una campagna d’immagine mirabilmente orchestrata. Già il 17 marzo un aereo con sei medici cinesi e materiale sanitario è atterrato in Serbia, venendo accolto in aeroporto dal presidente Vučić in persona, che nell’occasione ha anche baciato la bandiera del Dragone.

Inoltre, un tabloid filo-governativo ha tappezzato la capitale di manifesti con la scritta “Grazie, Xi” sotto il viso sorridente del presidente cinese e la premier Ana Brnabić ha annunciato l’intenzione di costruire un monumento all’amicizia serbo-cinese. Come riportato dal Guardian, sono ora esperti cinesi a guidare le autorità serbe nella reazione al coronavirus. 

Belgrado è già parte dell’iniziativa 17+1, il format con cui Pechino punta a integrare gli Stati di Balcani, Europa centrale ed Europa orientale nelle nuove vie della seta. I dati della Banca mondiale (2018) parlano di un ruolo crescente della Cina nell’economia serba, sebbene esclusivamente nell’export (8.37 per cento), l’import non raggiunge lo 0.5 per cento. Diversamente dell’Ue, la Cina non ha infatti alcun interesse a sviluppare le economie della regione, né tantomeno a potenziarne le istituzioni: i Balcani occidentali le interessano sostanzialmente come corridoio verso l’Europa più ricca.  

Se per Pechino la penisola balcanica è una questione di soldi, per Mosca è una questione di influenza. La Russia è considerata tradizionalmente il partner di riferimento per la Serbia, in virtù delle longeve affinità tra le due popolazioni, che condividono fede (ortodossa), alfabeto (cirillico) e anche larghe fette di storia. Un esempio su tutti, il sostegno della Russia zarista fu decisivo  nelle vicende con cui la Serbia conquistò l’effettiva indipendenza dall’impero ottomano (1878).

Oggi questa amicizia interessata si fonda in gran parte su azioni simboliche molto pubblicizzate. Il 2019 ne ha viste numerose, come l’esercitazione militare congiunta rinominata Slavic brotherhood o l’accordo tra Belgrado e l’Unione economica eurasiatica (Uee), l’iniziativa lanciata da Mosca per bilanciare l’Ue. Il peso economico della Russia in Serbia non è però particolarmente alto (import 7.87; export 5.32 per cento). 

Mosca non ha potuto mobilitare risorse ingenti per aiutare Belgrado nemmeno durante l’attuale emergenza sanitaria. Tuttavia, come nel caso della Cina, gli aiuti irrisori inviati dal Cremlino (perlopiù disinfettante per ospedali e condomini) sono stati celebrati fastosamente dai media, venendo presentati come riprova ulteriore della solidità del vincolo slavo-ortodosso.  

Molto meno incensato ma molto più determinante è, infine, il ruolo degli Usa. L’influenza che esercitano sulle vicende serbe è molto maggiore di quanto piaccia ammettere alle autorità, tanto da non necessitare di trovate pubblicitarie come quelle cui sono ricorse Russia e Cina durante la pandemia. Washington resta l’attore egemonico, essendo de facto il garante della sicurezza del paese e del resto della regione. Difatti, a fronte di una presenza economica scarsa (import ed export inferiori al 2 per cento), in questa regione Usa vuol dire soprattutto Nato.

Unicum in tutta la regione, la Serbia non aspira però a unirsi all’Alleanza atlantica, sia per ragioni geopolitiche – preservare la propria preziosa neutralità – sia per ragioni sociali. Il ricordo dei bombardamenti Nato (marzo-giugno 1999) che misero fine alla guerra di secessione del Kosovo è una ferita ancora profonda nella memoria collettiva serba.

Seppur teoricamente neutrale, nel XXI secolo Belgrado ha comunque intensificato parecchio la propria collaborazione con la Nato. Nel 2006 ha aderito alla Partnership for Peace, nel 2015 ha siglato un Individual Partnership Action Plan (Ipap) e ogni anno si tengono una decina di esercitazioni congiunte.   

Nel complesso, la Serbia del 2020 pare un degno erede della Jugoslavia del maresciallo Tito, capace di prosperare per quasi tutta la Guerra fredda sulla posizione di equidistanza tra mondo libero e blocco sovietico. Se però la Belgrado di allora godeva di un prestigio internazionale tale da porsi alla testa del Movimento dei non allineati, quella di oggi può solo barcamenarsi tra potenze avversarie cercando di massimizzare la sua spregiudicata terzietà.  

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