«Io fui un grillino ante-litteram, prima di diventare immeritatamente il volto della Casta. Ma la prego, “grillino” lo metta tra molte virgolette», così comincia la chiacchierata con Clemente Mastella, decano della politica italiana, due volte ministro, nella Seconda repubblica ago della bilancia in grado di far cadere governi e oggi sindaco di Benevento.
Come mai grillino ante-litteram?
Prima di entrare in Parlamento, nel 1976, ero giornalista assunto in Rai, e guadagnavo molti più soldi. Potevo prendere il doppio stipendio, come tanti miei colleghi. Il mio caporedattore mi consigliò di “pigliare tutto fin quando puoi”. Rifiutai e mi misi in aspettativa, senza prendere più una lira dalla Rai.
Normale, no?
No. Altri miei colleghi, anche del Partito comunista, continuavano a prendere lo stipendio. Feci casino con delle interrogazioni parlamentari, e feci in modo di farli mettere in aspettativa.
Quella piccola battaglia vinta non è bastata a Clemente Mastella per evitare di diventare il volto della Casta dei parlamentari: quella casta che iniziò come titolo di un libro di successo nel 2007, si trasformò in un bersaglio di un nuovo movimento politico (i 5 Stelle) e finisce ora come obiettivo da decimare nella legge che sarà sottoposta al Referendum del 20 e 21 settembre. «Presero di mira me perché ero un Calimero, perché venivo da un paese e da un partito piccolo. E perché ero meridionale».
L’uomo, oggi sindaco di Benevento e in corsa alle regionali campane a sostegno di Vincenzo De Luca, già senatore, europarlamentare, due volte ministro e soprattutto otto volte onorevole della Camera dei deputati, voterà no, per due motivi semplici. «Il primo è che molte province non saranno più rappresentate in Parlamento. Benevento, la mia, per esempio non eleggerà nemmeno un senatore, mentre Napoli ne eleggerà sette».
Cosa propone lei?
Che ogni provincia italiana rappresenti almeno un un senatore e due deputati, a prescindere dalla sua grandezza. Come succede in America, del resto, dove anche gli stati più piccoli eleggono i parlamentari.
Secondo motivo?
I costi, che non si abbasseranno. A questo punto, tanto valeva votare la riforma costituzionale di Renzi, che eliminava il bicameralismo perfetto. Si riducevano i costi e si velocizzavano le procedure.
E invece?
Ci ritroviamo con una legge pasticciata fatta da parlamentari che non hanno il senso dell’orientamento politico contro altri parlamentari.
Voi eravate tanto migliori?
Il peggiore di noi della Prima Repubblica era meglio della maggior parte di questi della Seconda.
È vero che lei sfruttò i centralini della Rai per farsi eleggere la prima volta?
(ride) Ma no. Semplicemente, quando ancora lavoravo in Rai, prima delle elezioni chiedevo ai centralinisti di telefonare a elettori di paesini del mio collegio, in cui ero poco conosciuto, come Montevergine, Perdifumo. Una volta che rispondevano, mi facevo introdurre dai centralinisti come se fossi il direttore Rai, e iniziavo la pappardella: “Guardi c’è un bravo candidato, un nostro giovane, si chiama Clemente Mastella”. E insomma, il direttore non ero io. Ma a quei tempi non c’era mica la videochiamata.
Funzionò?
Sì. Nel 1976, a 28 anni, entrai in Parlamento. Con un vestito nuovo, blu, comprato assieme a mia moglie per l’occasione.
Come fu il primo giorno?
Ero emozionatissimo. Quel palazzo mi creava una forma di sudditanza psicologica. L’avevo visto in tv o solo letto nei racconti della storia italiana o nei retroscena di Guido Quaranta su L’Espresso.
La prima scoperta?
Che le grandi divisioni tra le correnti della Democrazia Cristiana, che noi giovani guardavamo come incolmabili dalla periferia, in quei corridoi dei palazzi romani finivano per oliarsi, per amalgamarsi. De Mita parlottava con Andreotti, Fanfani chiacchierava con Scalfaro.
E la seconda?
La mensa.
Racconti.
Noi deputati pranzavamo in una mensa self-service, portandoci dietro il vassoio. Due giorni dopo scoprii che i colleghi del Senato avevano un ristorante interno molto ma molto più raffinato, ed erano serviti al tavolo dai camerieri. Iniziai a pranzare ogni giorno là.
Non le dicevano niente?
Certo. I senatori si incazzavano, perché i posti del ristorante erano pochi e noi glieli occupavamo. Gli rispondevo: “Andate a mangiare alla Camera, lì ci sono posti”. Ovviamente non ci andarono.
Ecco, i soliti parlamentari che mangiano tutto.
Ma noi avevamo personalità, davamo una forma al Parlamento. Pensi a una persona lontana da me, come Pannella. Un gigante rispetto ai deputati di oggi.
Perché secondo lei il Parlamento non conta più come allora?
Credo che tutto sia cominciato con l’avvento della seconda Repubblica. Berlusconi ha iniziato quel percorso di personalizzazione, poi proseguito da Grillo, Renzi e Salvini. Il centro si è spostato verso i governi e i capi partito.
E i parlamentari sono passati in secondo piano.
Il colpo di grazia è arrivato con la riforma elettorale del 2005, che ha eliminato le preferenze e deciso che i parlamentari venivano nominati dalle segreterie dei partiti a Roma. A quel punto i parlamentari hanno sacrificato ogni personalità in nome della convenienza.
Cioè?
Se esprimono delle minime critiche o un’autonomia di pensiero, rischiano di essere fregati dalle segreterie e di non essere messi più in lista. Per questo quelli come me, che hanno una base sul loro territorio, vogliono le preferenze: per mantenere la propria indipendenza.
A proposito di indipendenza, il Pd sul referendum lascerà libertà di coscienza ai suoi elettori.
Cosa vuole, è un partito che cammina in maniera incerta, sempre timoroso dei suoi alleati. E che per quella paura sta perdendo anche il suo legame storico con la Costituzione.
Non le piace la linea del segretario Zingaretti.
È una persona perbene, priva del piglio della decisione.
E Luigi Di Maio?
Una figura esile, fisicamente e politicamente.
Il premier Giuseppe Conte?
Dalle mie parti si dice: “Si entra di stiletto e si mette di quarto”, per indicare qualcuno che entra piano e poi inizia ad allargarsi, morbidamente.
Tradotto?
Inteso come complimento: è un gran figlio di buona donna.