Il mese appena trascorso ha visto ravvivarsi lo scontro su temi storici e identitari tra Bulgaria e Macedonia del Nord. La querelle è riesplosa il 10 settembre, quando il ministro della Difesa bulgaro Krasimir Karakachanov, leader del partito nazionalista Movimento Nazionale Bulgaro, ha accusato Skopje di non stare partecipando con convinzione ai lavori della commissione accademica mista incaricata di elaborare una visione condivisa della storia delle due nazioni balcaniche.
Karakachanov ha nuovamente minacciato la possibilità di boicottare la prima conferenza intergovernativa Ue-Macedonia del Nord, il passaggio che dovrebbe inaugurare concretamente il percorso di adesione di Skopje al blocco comunitario. In quanto Stato membro, la Bulgaria può esercitare la propria facoltà di veto su qualunque aspetto relativo all’integrazione dei paesi candidati.
Come da copione, nei giorni successivi all’uscita di Karakachanov, le autorità macedoni hanno reagito alle accuse, pur con toni concilianti. Il vice-premier con delega agli Affari europei Nikola Dimitrov ha ricordato che, essendo alcuni episodi ed eroi storici importanti per entrambe le popolazioni, essi non dovrebbero essere attribuiti a una delle due in maniera esclusiva. Un messaggio al vicino orientale, ma anche all’opposizione nazionalista interna, la Vmro, che sulla rivendicazione di una “macedoneità” oggettiva e indiscutibile costruisce una quota ingente del proprio consenso politico.
La diatriba si è momentaneamente placata il 28 settembre, quando in una chiamata telefonica il premier bulgaro Boyko Borissov ha ribadito al collega macedone Zoran Zaev il sostegno di Sofia all’integrazione in Ue dei vicini.
Allarme rientrato, ma la relazione bulgaro-macedone resta un affare molto complesso.
Il problema risiede nel fatto che davvero bulgari e macedoni sono, per molti aspetti, la stessa nazione. Gran parte dei bulgari considera lo Stato vicino come un proprio territorio separato dalla madrepatria dagli accidenti della storia. Allo stesso modo vede i macedoni – intesi come la componente slava maggioritaria (64.2%) della popolazione della Macedonia del Nord, dove vivono anche comunità albanesi (25.2%), turche (3.5%), rom (2.7%) e serbe (1.8%) – come propri connazionali che si ostinano a intestarsi un’alterità non supportata da alcun fondamento. La distinzione tra macedoni e bulgari sarebbe, secondo questi ultimi, solo la semplice divisione amministrativa, una linea di confine tracciata a tavolino senza conformarla a criteri etnici, politici, né geografici.
E, sebbene il macedone sia riconosciuto come lingua ufficiale, esso è pressoché identico al bulgaro.
Dal canto loro, globalmente i macedoni si reputano invece una nazione a sé stante, simile ma intrinsecamente diversa dai bulgari, così come dai serbi, dai greci e dalle altre popolazioni limitrofe. Un’auto-percezione corroborata dalle politiche ultra-nazionaliste perseguite dall’ex premier Nikola Gruevski (2006-2016), al momento esule in Ungheria.
Queste due diverse interpretazioni originano dal tormentoso processo di genesi degli Stati nazionali che ha interessato la penisola balcanica a partire dal XIX secolo, quando l’impero ottomano iniziò a sgretolarsi e sui suoi possedimenti nacquero Stati indipendenti. Come di norma nell’Europa orientale, in pressoché nessuno di queste nuove entità statali viveva però un solo ceppo nazionale: nei Balcani l’equivalenza tra nazione e Stato è impraticabile.
A questa difficoltà – far coincidere un’entità amministrativa (facilmente delimitabile) a una comunità politica – si aggiunge anche un problema a prima vista teorica, ma dalle devastanti conseguenze sul piano pratico: l’estrema vaghezza e duttilità del concetto dell’appartenenza nazionale. Definire precisamente l’appartenenza nazionale di un individuo o di un gruppo è, notoriamente, un’operazione onerosa, caratterizzata da amplissimi margini di soggettività e arbitrarietà. Sicché sovente nell’Europa post-comunista questa velleità tassonomica di segregazione si è tradotta in campagne di pulizia etnica, deportazioni, scambi di popolazione. Le appartenenze, inoltre, evolvono negli anni e anche all’interno di un gruppo relativamente omogeneo possono consolidarsi élite che rivendicano ulteriori frammentazioni, sulla base di vere o presunte differenze culturali, politiche, financo etniche, spiralizzando un processo di scissione potenzialmente infinito.
Questa descrizione stringata dei processi di nation-building e state-building si applica bene al caso bulgaro-macedone.
Durante l’impero ottomano non si dava una distinzione netta tra bulgari e macedoni: come altre popolazioni soggiogate alla Sublime porta, erano entrambi parte di una comunità impegnata a combattere per la propria indipendenza. Con “Macedonia”, poi, si intendeva innanzitutto una regione storica, comprendente parti dell’attuale Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria e porzioni minori di altri Stati, e legata nell’immaginario comune all’universo storico-culturale ellenico e alla figura di Alessandro Magno.
Per questo motivo, alcune tappe, come la rivolta di Ilinden (1903), e alcuni eroi, come Goce Delčev (1972-1903), della lotta contro gli ottomani sono oggi legittimamente rivendicati sia da Skopje che da Sofia come parte inalienabile della propria storia: di fatto essa, all’epoca, era la medesima.
La separazione avvenne con la seconda guerra balcanica (giugno-luglio 1913). Sconfitto il Regno di Bulgaria, il Regno di Serbia acquisiva con il Trattato di Bucarest (10 agosto 1913) quasi tutti i territori che oggi formano la Macedonia del Nord. Da quel momento questi possedimenti e la popolazione che vi risiedeva rimasero parte del Regno di Serbia e delle innumerevoli creature statali che ne presero il posto nei decenni successivi: Regno dei Serbi, Croati e degli Sloveni (1918-29), Jugoslavia monarchica (1929-43) e infine Jugoslavia socialista (fondata nel 1943 e dissoltasi in vari sussulti tra 1991 e 2006).
Durante l’epoca jugoslava, i macedoni – per approssimazione, i bulgari ritrovatisi oltreconfine – vennero riconosciuti come uno dei sei gruppi nazionali fondativi della Jugoslavia titina, assieme a serbi, croati, sloveni, montenegrini e (solo in un secondo momento) musulmani. “Macedonia”, inoltre, venne chiamata una delle sei repubbliche che, assieme a Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia e Montenegro, componevano la federazione.
Al fine di contrastare l’influenza della vicina Bulgaria, le autorità jugoslave incentivarono la nazionalizzazione di questa popolazione, spingendola a enfatizzare – quando non a introdurre ex novo – le proprio differenze coi bulgari.
Ottenuta l’indipendenza (1991) dopo la disgregazione della Federazione jugoslava, la Macedonia si ritrovò con un’identità nazionale molto incerta. Lo stesso nome del proprio Stato venne contestata dalla Grecia, che impose a Skopje l’utilizzo della dicitura Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM) nei consessi internazionali.
Questa disputa sul nome, divenuta nel tempo un caso studio classico della politica internazionale, è stata risolta solo due anni fa, con gli accordi di Prespa (siglati il 12 giugno 2018), grazie ai quali la Macedonia del Nord ha acquisito l’attuale denominazione e ha potuto sia aderire alla Nato che cominciare il processo di entrata nell’Ue.
Prima di confezionare questo insperato trionfo diplomatico, il primo agosto 2017 la repubblica post-jugoslava aveva finalizzato un’altra importante iniziativa: il Trattato di amicizia con la Bulgaria, il primo passo verso la normalizzazione del rapporto con l’ingombrante vicino.
L’intesa stabiliva anche la fondazione di quella commissione storica mista tornata nell’occhio del ciclone nelle ultime settimane.
Al netto dell’opportunismo politico di Karakachanov, che ha rispolverato la vicenda proprio in una fase in cui il governo di cui fa parte è oggetto di pesanti contestazioni di piazza, e anche dell’eventuale fondatezza delle sue accuse, la vicenda ha illuminato una volta di più lo squilibrio di potere tra Stati Ue e aspiranti candidati. Godendo di potere di veto, i primi possono ricattare i secondi obbligandoli a piegarsi a qualunque loro desiderio, aggiungendo implicitamente altre condizioni oltre a quelle, già molto onerose, previste dal processo di adesione.
Simili pratiche incrementano il consenso in patria dei governi che le adottano, ma contribuiscono a incrinare l’immagine dell’Ue nella regione, squadernando anche in dossier secondari come quello balcanico l’inconsistenza della sua politica estera, ostaggio delle divergenze di interesse tra gli Stati membri.