Quando il mese scorso Neymar Jr. ha firmato un contratto di sponsorizzazione con Puma è diventato il brand ambassador più ricco del mondo del calcio, grazie a un accordo da 25 milioni di euro l’anno. Più del doppio di quel che percepiva da Nike, una cifra superiore perfino ai 19 milioni percepiti da Lionel Messi da adidas e ai 16 che incassa Cristiano Ronaldo da Nike.
Il brand tedesco ha scelto di rompere un nuovo record per portare in squadra il talento brasiliano. Solo tre anni prima il Paris Saint-Germain lo aveva reso il calciatore più pagato della storia investendo 222 milioni di euro per portarlo in Francia.
Il motivo di queste spese enormi per Neymar è semplice: non è solo uno dei migliori giocatori del mondo, ma è anche un’icona, un volto riconoscibile a tutte le latitudini, quindi rivendibile in tutto il mondo.
Per Puma la firma di Neymar ha anche un altro significato. Negli uffici dell’azienda devono aver ripetuto più volte quel vecchio adagio che vale per l’economia, la politica e qualsiasi altro settore: when in trouble, go big.
Nel primo trimestre del 2020 Puma ha perso il 16 per cento del fatturato rispetto all’anno precedente a causa della pandemia, la fine della crisi non sembra prossima e il marchio deve ancora scontare la perdita di visibilità dovuta al ritiro dalla carriera agonistica di Usain Bolt – uno degli atleti più importanti del mondo.
Il Global Director of sports marketing di Puma, Johan Adamsson, ha spiegato a Linkiesta che «ci sono diversi aspetti che spingono l’azienda a mettere sotto contratto un atleta: ad esempio in che area specifica è attivo, o la fascia di popolazione in cui ha maggior seguito, la squadra per cui gioca, se è giovane o un veterano. Nel caso di Neymar si tratta di uno dei migliori giocatori al mondo, con una fama che arriva in ogni angolo del globo, e un grande seguito tra le nuove generazioni».
La visibilità garantita da Neymar è un caso più unico che raro, perché si tratta di uno dei giocatori più famosi del mondo, al vertice dello sport più popolare, ed è anche molto attivo sui social, quindi sa farsi seguire anche fuori dal campo.
Ma dalla firma del brasiliano si possono trarre alcune considerazioni generali sui criteri di scelta dei brand al momento di selezionare i loro ambassador. «La prima componente fondamentale è quella più scontata della visibilità», dice a Linkiesta Sandro Castaldo, professore di Trade marketing & Channel management alla Bocconi. «Ogni volta che un atleta compare sui giornali, in televisione, che interazioni ha sui social, tutto questo contribuisce a far entrare il logo dell’azienda nella mente delle persone», spiega il professore.
I numeri in valore assoluto però non bastano. O meglio, la seconda componente fondamentale, spiega Castaldo, è «che l’immagine dell’azienda sia trasmessa in un’accezione positiva, si pensi quando all’inizio degli anni Duemila vennero fuori le inchieste sullo sfruttamento di lavoro minorile da parte di Nike».
I valori del brand possono essere trasmessi anche in un’accezione puramente tecnica, dice Castaldo: «Associare il marchio di un’azienda e i suoi prodotti a un giocatore o una squadra che vince, solleva trofei, ha un’immagine positiva, aiuterà a costruire un’immagine vincente anche dell’azienda e dei suoi prodotti».
Ma può avere un impatto maggiore quando quei valori vanno oltre la performance sportiva. Johan Adamsson di Puma, ad esempio, sottolinea che la sua azienda «fa di tutto per includere atleti con ogni background possibile, indipendentemente dal paese di provenienza, il colore della pelle, la fede religiosa, l’orientamento sessuale o altro. Perché il messaggio che si vuol far passare è che lo sport unisce le persone, non crea separazioni».
Negli anche altri grandi brand di abbigliamento sportivo come Nike e adidas hanno dato dimostrazione di voler trasmettere valori positivi con i loro sportivi. Entrambe sono state contattate da Linkiesta, ma non hanno risposto. «Si tratta di argomenti sensibili e confidenziali», ha detto adidas.
Ad ogni modo, Nike era diventato un case study nel 2018 con il trentennale della campagna pubblicitaria “Just Do It”. In quell’occasione l’azienda di Beaverton scelse Colin Kapernick come testimonial: il quarterback di football americano già uscito dal giro della Nfl da un paio di stagioni per il kneeling, il gesto di inginocchiarsi durante l’inno americano che – in un modo o nell’altro – gli è costato la carriera.
Il New York Times spiegava in un articolo di quei giorni che «le pubblicità e i prodotti Nike sono diretti a una fascia di popolazione prevalentemente liberal, abituata a vivere in contesti multirazziali e che, in generale, empatizza con il kneeling». Da qui l’idea che seppur la strategia di Nike avesse allontanato una parte del seguito dell’azienda sarebbe ugualmente stata una valida intuizione di mercato – perché ovviamente si tratta di scelte dettate in primo luogo dal mercato.
Un altro importante parametro da affiancare alla visibilità, e alla qualità della stessa, è la prospettiva futura dell’investimento. Un po’ come quando si gioca in Borsa, i brand puntano su uno sportivo in base al rendimento che immaginano possa avere negli anni successivi: soprattutto perché il ritorno economico degli investimenti è difficile da calcolare e spesso arriva nel medio-lungo periodo.
È il caso di Nike e Neymar, che avevano stipulato il primo accordo nel 2005 quando il brasiliano era ancora un ragazzino di 13 anni. Ma non vale solo per i giovani prospetti.
Un caso particolare è quello della giapponese Uniqlo, brand di moda che negli ultimi anni sta penetrando nel mercato tennistico, prima con Kei Nishikori, poi con Novak Djokovic, infine anche con Roger Federer.
Proprio il trasferimento del campione di Basilea aveva sorpreso tutti, appassionati e addetti ai lavori: al momento dell’annuncio, alla vigilia di Wimbledon 2018, il matrimonio con Nike durava da 24 anni (anche lui ne aveva solo 13 alla prima firma) e il marchio giapponese non ha il prestigio del “baffo”.
Uniqlo però ha saputo muovere i fili giusti: ha promesso un accordo più ricco, pare circa 10 milioni l’anno in più rispetto a quanto promesso da Nike; ha permesso a Federer di intervenire ed esprimersi sull’outfit in ogni torneo; ha concesso allo svizzero un contratto decennale, che per un atleta di (allora) 37 anni è un’opportunità irrinunciabile.
In questo caso la “futuribilità” dell’investimento su Federer va oltre i risultati sportivi, va oltre il tennis. Uniqlo punta su Federer con un doppio fine: entrare nel mercato tennistico usando un campione indiscutibile come veicolo, e usare la sua immagine successivamente per rafforzare il core business del marchio nel mondo della moda.
«Un ex giocatore – spiega il professor Castaldo – può essere ancora un modello per una casa di moda se riesce a essere riconoscibile al termine della carriera e magari anche simbolo di uomo che sa invecchiare bene. È sicuramente un caso particolare perché se guardiamo gli anni di contratto vediamo che puntano più a quel che sta fuori dal campo che a quello che sta dentro. Per Federer è una grande occasione e Uniqlo ha saputo intercettare il suo bisogno di guardare a quel che sarà dopo la carriera».
I guadagni però non sempre sono misurabili con precisione. Lo spiega anche il Global Director of Sports Marketing and Sports Licensing di Puma, Johan Adamsson: «Ci sono i “tangibles” e gli “intangibles”, non tutto si può calcolare come una voce a bilancio quando si tratta di valutare gli effetti di una partnership. Ma su questo bisogna anche avere occhio e saper fiutare l’affare».
Di solito, prima di proporre un accordo a un nuovo testimonial, un’azienda fa una lunga analisi di mercato, individua una rosa di nomi che rientra nei suoi parametri – siano essi la visibilità, il target di pubblico, le interazioni sui social, la futuribilità o qualcos’altro – e valutano il fit più adatto.
«A volte per capire l’impatto che potrebbe avere l’investimento si può fare il ragionamento inverso e chiedersi quanto bisognerebbe spendere in campagne pubblicitarie per avere gli stessi risultati», dice Castaldo, ricordando che poche campagne pubblicitarie “anonime” possono competere con la visibilità di un grande atleta.
Per i marchi più piccoli, quelli che non possono raggiungere i Neymar, i Federer o i Kaepernick, ci sono altre opzioni. Lo spiega a Linkiesta Roberto Casolari, Sports Marketing Director di Macron: «Noi abbiamo interrotto le nostre campagne di sponsorizzazione con i singoli atleti principalmente perché non produciamo scarpe, quindi siamo fuori da un grosso segmento di mercato e non ci converrebbe investire sul singolo. Noi per la visibilità seguiamo un’altra strategia: sponsorizziamo squadre sportive in Italia e in Europa».
L’azienda bolognese infatti è sponsor tecnico di diversi club di calcio: Lazio, Udinese, Bologna, Sampdoria, e poi molte altre in giro per l’Europa, Sporting Lisbona, Nizza, Real Sociedad, Levante, Stella Rossa Belgrado, Bruges.
«Qui la strategia è chiara – dice Casolari – è un gioco di credibilità, prima ancora che di esposizione mediatica o visibilità in tv. Ormai siamo il terzo brand in Europa per numero di squadre sponsorizzate. Questo aumenta la nostra credibilità e il valore del nostro marchio. Così sul nostro mercato, quello tecnico per sportivi e squadre non professionistiche, quindi borse, palloni, coni, pettorine, siamo cresciuti molto negli ultimi anni».
L’esempio di Macron racconta che ogni brand seleziona i volti e le squadre a cui legarsi secondo parametri e scale di valutazione differenti. Il mercato degli atleti e delle squadre da sponsorizzare può muovere somme di denaro enormi, ma solo se nel gioco delle parti l’una sa intercettare i bisogni dell’altra.