È effettivamente storica la decisione del Sudan del 23 ottobre di riconoscere Israele e di aprire relazioni diplomatiche con Gerusalemme, aderendo così all’Accordo di Abramo. Grande paese arabo, un tempo parte dell’Egitto, il Sudan ha sempre infatti combattuto con energia dal 1948 in poi tutte le guerre arabe contro Israele ed è stato un avversario duro e combattivo dello Stato ebraico, mentre i piccoli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che sono stati gli apripista dell’Accordo, nei fatti mai hanno combattuto lo Stato Ebraico.
Non solo, i militari sudanesi che fecero il golpe del 1989 a Khartoum, capeggiati dal colonnello Ahmed al Beshir, rivendicarono la loro legittimità proprio per essere stati in prima linea contro Israele nella guerra del Kippur del 1973. A Khartoum, inoltre e non a caso, nel settembre del 1967 la Lega Araba enunciò i suoi tre No: No al riconoscimento di Israele, No a trattative con Israele, No alla pace con Israele. Dunque il Sudan da decenni in prima linea nel “Rifiuto arabo del diritto di Israele ad esistere”. Oggi, la svolta, il capovolgimento completo di quel rifiuto.
Fino all’abbattimento nel 2019 del regime di Ahmed al Beshir, il Sudan – in eccellenti rapporti con Teheran – ha funzionato come indispensabile base per i rifornimenti militari e finanziari iraniani ad Hamas nella striscia di Gaza per combattere Israele. Dal Sudan sono passati le migliaia di razzi e missili lanciati da Gaza su Israele.
Ora, dopo questo passo, sotto evidente regia saudita – i due paesi, che si fronteggiano sul Mar Rosso hanno storici rapporti di interdipendenza – la massa critica dei paesi arabi che diventano amici di Israele si arricchirà con l’Oman, il Marocco (che però attende prudentemente l’esito delle presidenziali americane) e altri. Un vero e proprio sconvolgimento positivo degli assetti del Medio Oriente che peraltro permetterà a Israele di moltiplicare la sua egemonia economica regionale.
Una secca sconfitta per la Turchia di Erdogan e per l’Iran degli ayatollah, sponsor di Hamas, come per Hezbollah (inserita oggi dal nuovo governo del Sudan nella lista delle organizzazioni terroriste), che si avviano a dover constatare di avere perso gran parte dei paesi arabi pesanti, nel loro aspro conflitto politico-militare con Gerusalemme.
Un’ulteriore débâcle per la dirigenza palestinese, sia quella di Abu Mazen, sia Hamas, che ora si trovano addirittura senza una strategia di confronto con Israele, avendo sempre e stupidamente ragionato nei termini di uno scambio tra la fine dell’occupazione israeliana e il riconoscimento del diritto di Israele di esistere. Oggi, cinque determinanti paesi arabi – Egitto, Giordania, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Bahrein – riconoscono il diritto di Israele di esistere in cambio di nulla. Perché prendono atto che Israele esiste e che la strategia palestinese, come ha dichiarato in una lunga intervista l’importantissimo principe saudita Bandar bin Sultan, è fallimentare e senza sbocchi.
Gli sguardi ora sono puntati sull’Arabia Saudita, che è la regista non occulta dell’Accordo di Abramo e del suo allargamento, perché è evidente che una sua adesione porterebbe tutti i paesi arabi (ad esclusione probabilmente della Algeria, dell’Iraq, della Siria, del Libano e dello stravolto Yemen) ad aderire. Ma il problema per Mohammed bin Salman, che detiene il vero potere a Ryad in vece del re suo padre, è che il regno saudita esercita la Custodia sui Luoghi Santi dell’Islam, quindi, in assenza dal 1924 del Califfato, esercita la più alta autorità religiosa di tutto il mondo musulmano. Un riconoscimento formale saudita di Israele – che comunque, nei fatti, è già pienamente operativo – avrà dunque un immenso impatto anche religioso su tutta la Umma musulmana. Quindi, si concretizzerà con lentezza e prudenza.
Naturalmente, gran parte del merito di questo stravolgimento positivo di tutto il Medio Oriente deve essere riconosciuto all’Amministrazione Donald Trump, che è riuscito lá dove gli ultimi presidenti, in primis Bill Clinton e Barack Obama, avevano fallito. Il Segretario di Stato di Trump Mike Pompeo è stato in strettissimo contatto nelle ultime settimane con i dirigenti politici e militari del nuovo Sudan, che hanno deposto Ahmed al Beshir, a cui ha offerto la cancellazione del paese dalla lista degli sponsor del terrorismo (titolo pienamente meritato dal regime di al Beshir che ospitò persino negli anni ’90 Osama Bin Laden) e ha prospettato ingenti aiuti americani futuri.
Dunque, si deve prendere atto che la pazzotica politica estera di Trump ha avuto successo lá dove i tanti “piani per il Medio Oriente” dei Clinton (Bill e Hillary) e di Obama non hanno lasciato traccia. Un successo di indubbia portata storica che gli deve essere riconosciuto anche dai tanti suoi antipatizzanti (tra i quali ci iscriviamo). Una contraddizione che i tanti critici di Trump dovranno elaborare, anche se Bibi Netanyhau, evidentemente al corrente dei sondaggi elettorali americani, a microfoni accesi ha rifiutato di dare ragione a Trump secondo il quale con Joe Biden alla Casa Bianca tutto questo non sarebbe potuto accadere.
Infine, successo personale travolgente proprio per Netanyhau, il quale ora offre a Israele una prospettiva radicalmente nuova e più che positiva di rapporti politici, diplomatici ed economici con tutto il mondo arabo.
Una novità assoluta, sconvolgente nella sua positività per lo Stato ebraico.
Specularmente, una sconfitta radicale e piena per una dirigenza palestinese sempre più isolata nello stesso mondo arabo e priva di strategia. Come si è detto, il baricentro della strategia palestinese trattativista (non quella di Hamas, che tuttora prevede la distruzione dello Stato Ebraico) si è sempre basato sulla concessione del riconoscimento del diritto di Israele ad esistere in cambio della sovranità piena palestinese sui Territori occupati. Ora, i palestinesi non hanno più possibilità di offrire questo scambio. E non sanno più che fare. Salvo gridare inutilmente al «tradimento arabo».