L’eterno ritorno del sempreguale per Nietzsche era un problema filosofico. Per il Partito democratico è un problema politico, con tanto di nome cognome, Silvio Berlusconi, uno spauracchio che si ripresenta quando meno te l’aspetti ponendo sempre la stessa domanda di 25 anni fa: fidarsi o no?
Certo, tutto è cambiato. Il Covid 19 sta drammaticamente ridisegnando il mondo, ha persino contribuito a decidere il nome del presidente degli Stati Uniti ma non ha modificato questo interrogativo: la sinistra può allearsi con l’ex Uomo nero? Il Pd non ha avuto nemmeno tanto tempo per ragionarci e ha detto subito ben venga una destra responsabile e disposta a collaborare con un governo che non ha le gomme esattamente gonfie, quindi certo che Forza Italia è ben accetta. Ed è improvvisamente tornato in auge un tratto tipico del togliattismo-dalemismo, dividi il fronte avversario – «non regaliamo Berlusconi a Salvini» – e in effetti i due si sono subito azzannati, e Laura Ravetto e altri due parlamentari (uno dei quali aveva in un primo tempo optato per andare con Calenda) sono corsi ad arruolarsi nella Lega – forse è più facile essere rieletti – e insomma la situazione politica si è un po’ aperta.
Goffredo Bettini, che da sempre è legato all’idea di mettere insieme i migliori, ancora una volta ha disegnato una traiettoria buona per Gianni Letta e dunque per il Cavaliere. Concretamente è Roberto Gualtieri, un ministro molto più politico di quanto non dica l’incarico di ministro dell’Economia, a costruire un’ipotesi di intesa ovviamente a partire dai provvedimenti economici, incontrando a via XX Settembre la capogruppo di Forza Italia Maria Stella Gelmini e perorando ieri a Omnibus-La7 la causa dell’abbraccio con gli azzurri: che saranno pure pochi però in Parlamento possono fare la differenza.
Ma non è solo questo. Claudio Mancini, strettissimo collaboratore di Gualtieri e deputato, l’ha sparata più in alto, nei cieli della grande politica: «Il Pd ha nel dna il compromesso storico, la vocazione all’unità nazionale», questa è dunque – come recitava un libro di D’Alema sulla sua Bicamerale – «una grande occasione», ha detto al Foglio. Si ritorna lì, malgrado tutte le bruciature, a partire proprio dal Bicamerale. E infatti l’afflato dei bettinian-dalemiani (fatto proprio anche da Nicola Zingaretti) non è condiviso da tutti. Dov’è la fregatura, ci si chiede. Si è detto, la norma anti-Vivendi è il prezzo da pagare per la benevolenza dell’uomo di Arcore. E allora alcuni hanno cominciato ad alzare il sopracciglio. Come Andrea Orlando, che quella norma la riscriverebbe anche se da buon nipotino del Pci non ha dubbi sull’asse Bettini-Berlusconi.
Eppure al secondo piano del Nazareno, fuori dalla segreteria di strettissima osservanza zingarettiana si dice che «va bene dialogare su manovra e scostamenti di bilancio ma sapendo che su Berlusconi si è formata nel tempo una coscienza civile che è difficile da rimuovere». Insomma, nel popolo dem, o in quel che ne resta, altri Patti del Nazareno non sarebbero visti con entusiasmo, specie se sorgesse il sospetto di uno scambio politico, per cui dovrebbe essere fuori discussione che la pratica vada portata avanti senza scorciatoie e alla luce del sole. Soprattutto, il Pd non ha ancora capito il gioco complessivo dell’ormai ex Caimano, se egli intenda giocare un ruolo da primattore nella partita del Quirinale.
Il timore, inoltre, è che un eventuale passo falso, anche solo d’immagine, possa restituire a un M5s mezzo morto un insperato evergreen propagandistico – il leggendario inciucio – o come minimo ridare fiato alla sarabanda di Di Battista contro Di Maio, che in questo momento è il più fedele alleato dei dem. E Giuseppe Conte? Conte osserva, lascia fare, si muove circospetto, timoroso di manovre e manovrine che possano indebolirlo. Per lui infatti l’ideale è che nulla si muova, nella grande stagnazione politica.