Nell’Italia dell’era Covid si avvicendano alchimisti di vario genere e natura, portatori, a volte infetti, di inedite misture finalizzate ad illudere una società incerta ed impaurita con la promessa della salvezza. Essi mescolano essenze, analizzano effluvi, inseguono aromi, indagano su odori anche repellenti cercando la radice primigenia del profumo perfetto che raggiunga la mente della gente e ne confonda le percezioni, rendendo schiavi del miraggio di un paradiso perduto, forse mai esistito se non nel desiderio.
Tutte le volte che pensano di poter raggiungere l’obiettivo, essi cospargono del nuovo sentore un candido fazzoletto di batista e lo agitano nell’aria per vedere quanti siano disposti a seguire quella scia. In unico sventolio ne saggiano sapientemente le note di testa, di cuore e di fondo. È un lavoro delicato e complesso che richiede la medesima pazienza del pescatore, disposto ad attendere lunghe ore prima che il pesce abbocchi all’amo di acciaio che l’esca abilmente intrecciata nasconde.
Ma, a differenza di quanto accade al pesce che rimane vittima del proprio elementare istinto a nutrirsi, l’olfatto umano ha un’immediata connessione con le funzioni cerebrali ed attinge al sistema limbico, formato da ippocampo ed amigdala, che controlla gli stati d’animo e le emozioni e dal talamo, metafora nuziale, che insieme ad alcune aree della corteccia frontale, è coinvolto nell’interpretazione cognitiva dello stimolo ricevuto attraverso le narici.
L’olfatto è, tra i cinque, il senso primordiale ed ha guidato i comportamenti di tutti gli esseri viventi dai più elementari ai più evoluti influenzando la fuga o l’attacco, la ricerca del nutrimento, l’accoppiamento e la riproduzione, il riconoscimento reciproco con la prole. In senso figurato, poi, è diventato fiuto, capacità di preveggenza, intuizione “a pelle” della natura di uomini e di situazioni. Un antico proverbio siciliano associa il fiuto e la fuga tempestiva non a viltà ma «salvamento di vita» come sa bene lo schiavo Maysarah nel racconto di Pietrangelo Buttafuoco ”L’ultima del Diavolo”.
Uno studio della Rockefeller University di New York ha dimostrato che le persone possono ricordare il 35% di quanto annusano, rispetto al solamente 5% di ciò che vedono, il 2% di ciò che sentono, l’1% di ciò che toccano e l’esperto di profumi Fred Dale ha constatato che mentre la memoria visuale perde il 50% della propria intensità dopo tre mesi, i ricordi legati alla sfera olfattiva perdono soltanto il 20% della propria intensità dopo un anno. In un test un gruppo di quarantacinque soggetti ha esaminato una scarpa sportiva da un medesimo paio; in una delle stanze era stato diffuso un leggero profumo di fiori. I risultati sono stati molto chiari; l’84% degli intervistati ha affermato di preferire la scarpa nella stanza profumata rispetto a quella della stanza senza odori.
All’olfatto si è riferito anche il Pontefice della Chiesa Cattolica quando, tra lo stupore generale, ha invitato i pastori di anime ad abbracciare senza riserve il gregge per «sentire l’odore delle pecore». E di pecore e di gregge si è tornato a parlare in questi mesi con riferimento alla disperata ricerca di un’immunità da raggiungere, secondo governanti drammaticamente ieratici come Donald Trump, Borsi, Johnson o Jair Bolsonaro, pur ricorrendo al il più antico e tragico dei tentativi umani di ingraziarsi la divinità avversa: il sacrificio dei più deboli. Nostalgia delle sterminate pampas argentine, narrate da Bruce Chatwin, Luis Sepulveda e Francisco Coloane per l’uno o ricordo archetipico dell’immolazioni di agnelli, primogeniti, vergini e ogni altro genere di vittime innocenti, per gli altri?
Milene Mucci ha scritto su Dol’s Magazine nel 2016 «C’è uno strano odore entrando nei padiglioni del lager, un odore mai sentito, qualcosa di caldo, nauseante e dolciastro che ti prende allo stomaco e vorresti soltanto scappare. C’è un odore ad Auschwitz che entra dentro e rimane, per sempre».
In un’intervista rilasciata a Marco Berry de Le Iene e riportata dal Messaggero nel giorno di San Valentino del 2014, l’ineffabile Rocco Casalino, a proposito di ”odore dei poveri” ha ricordato: «Il povero ha un odore molto più forte. Hai mai provato a letto un rumeno o di questi dei paesi dell’est? Anche se si lava o si fa dieci docce continua ad avere un odore agro dolce. Non so che cavolo di odore è. Però lo senti».
Successivamente ha dichiarato che si trattava della battuta di un copione assegnatogli per interpretare un politico classista, xenofobo e omofobo, ma la frase ha fatto il giro del web e fu anche riportata da TG3. Resta il fatto che dalla finzione scenica alla realtà, a politici di quel genere ha assicurato il proprio fedele talento per un periodo di tempo che, senza il Papeete, sarebbe ancora in corso. Quanta strada seguendo l’usta del Potere!
E che dire del tenente colonnello William, Bill, Killgore, sintesi di sicuro effetto tra “uccidere” e “sangue degli altri” mentre tra le note della Cavalcata delle Walkirie gli elicotteri mitragliano un villaggio di sospetti vietcong che poi sarà fatto spianare con il napalm, a cui Francis Ford Coppola fa dire: «Lo senti quest’odore? Un volta bombardammo una collina per dodici ore. Non trovammo più nessuno, neanche un lurido cadavere di viet. Ma quell’odore, quell’odore di benzina. Tutta la collina odorava di… vittoria!».
Di ben altri odori si nutre il parigrado, cieco di guerra, Frank Slade, l’immenso Al Pacino, nel film Scent of Woman di Martin Brest del 1992, remake di Profumo di Donna del 1974 per la regia di Dino Risi con Vittorio Gassman, Agostina Belli e quell’Alessandro Momo poi reso folle dai feromoni di Laura Antonelli in Malizia di Salvatore Samperi e perito non ancora diciottenne in un tragico incidente su una potente moto prestatagli da Eleonora Giorgi che dovette risponderne. Oggi avrebbe avuto sessantaquattro anni ma spesso il successo conquistato troppo presto profuma di incoscienza e di delirio di onnipotenza.
E di odori il cinema è stato pervaso sin dalle origini come Rose Parade del 1906 per giungere ai primi effetti speciali dello Smell-O-Vision, poi dell’Odorama in cui le locandine proclamavano «Prima si sono mossi (1895) poi hanno parlato (1927), ora profumano». La realtà, finta ma aumentata, aveva iniziato il proprio cammino inarrestabile.
Tuttavia hanno avuto più fascino e successo film le cui sequenze più che odori diffusi in sala hanno sprigionato l’immaginazione della magia dei profumi, e dei sapori, come potenti strumenti di seduzione e di potere. Pur senza effetti speciali ne hanno descritto la capacità di influenza in capolavori quali Willy Wonka nel 1971 con Gene Wilder, poi riproposto nel 2005 con Johnny Deep, Vatel nel 2000 con Gerard Depardieu, Chocolat nello stesso anno con Juliette Binoche, il film d’animazione Ratatouille del 2007, la Cuoca del Presidente con Catherine Frot nel 2012, ispirato ad una storia vera nello scenario dorato dell’Eliseo di Françoise Mitterrand.
Per non parlare delle gocce di Chanel n.5 unico indumento notturno di Marylin Monroe e indubbiamente note a JFK. Ne trovarono un flacone, insieme ai barbiturici, accanto al suo cadavere, ma le immagini prese da un fotografo della rivista Modern Screen in quella livida alba del 5 agosto del 1962 non furono mai pubblicate. D’altronde era stata proprio Coco Chanel a sostenere che «una donna dovrebbe indossare il proprio profumo ovunque le piacerebbe essere baciata».
Tuttavia, la dignità di massima opera cinematografica sul tema dell’olfatto è, ad avviso di chi scrive, il film Perfume: a story of a murderer del 2006, tratto dal romanzo Il Profumo del drammaturgo tedesco Patrick Süskind e portato sugli schermi nel 2006 dal regista Tom Tykver. La colonna sonora è eseguita dei Berliner Philharmoniker e il racconto è dominato dalle interpretazioni di Ben Wishaw, Dustin Hoffman e Alan Rickman, il Severus Piton della saga di Harry Potter. Il film è ambientato prima a Parigi e poi a Grasse, in Provenza, patria fin dal XVI secolo dell’industria profumiera e principale luogo di coltivazione della lavanda, del gelsomino e della Rosa Centifolia.
La storia, che ha ispirato questo articolo per i tanti ed attuali riferimenti con la realtà italiana, narra del giovane Grenouille, dall’infanzia dickensiana funestata dalla morte di quanti avrebbero potuto amarlo, dotato di uno straordinario ed ossessivo senso dell’olfatto che lo spinge alla ricerca dell’aroma supremo. Venduto come uno schiavo al maestro profumiere, l’italiano Giuseppe Baldini ormai in declino, ne apprenderà i segreti del mestiere, lo stupirà con l’incredibile capacità di percepire e distillare l’essenza di ogni cosa e di ogni essere vivente, ma lo terrorizzerà per la luce demoniaca che gli si legge negli occhi.
Grenouille infatti è disposto a qualunque nefandezza pur di creare il profumo perfetto in grado di ammaliare e sedurre qualsiasi creatura. Acquistata la libertà con cento formule di ricette che Baldini gli impone di scrivere quale prezzo del riscatto, si mette in cammino verso Grasse, dove da secoli è praticata la tecnica dell’enfleurage, per cercarvi le essenze più pregiate da cui distillare ciò che cerca. Giunto in città, scopre che esso è data dalla mescolanza dell’odore di tredici effluvi dati dai cadaveri di ingenue e bellissime giovani donne.
Si trasforma così in uno spietato serial killer cui presto le autorità locali inizieranno a dare la caccia. Catturato dopo aver causato l’ennesima vittima, figlia di un notabile che aveva cercato inutilmente di metterla in salvo, è condannato al patibolo. Mentre ne sale le scale, lascia cadere alcune gocce del profumo finalmente ottenuto ed immediatamente la folla colma di odio che attende di vedere l’esecuzione, si trasforma.
Inebriati da un essenza mai sentita, tutti gli tendono adoranti le braccia, guardie e carcerieri, prelati e suore, potenti ed umili, poveri e ricchi cominciano ad abbracciarsi e ad accarezzarsi, si denudano e l’intera piazza diviene teatro di un’orgia dove si consumano amori di ogni genere. Perfino il padre dell’ultima vittima, pur avendo tentato di resistere al sortilegio, abbraccia le ginocchia dell’assassino e ne implora il perdono.
La folla di amanti casuali si risveglierà dopo qualche ora e pieni di vergogna, uomini e donne cercheranno imbarazzati di coprire le proprie nudità, increduli e inorriditi per quanto accaduto. Una metafora dell’ipocrisia umana. Al posto del vero colpevole viene rintracciato e giustiziato un “capro espiatorio” e la cronaca dell’intera vicenda viene sepolta, nel silenzio complice di tutti, tra i recessi più reconditi degli archivi della città.
Grenouille è scomparso. È libero, porta con sé l’ampolla ancora piena dell’essenza a cui deve la vita ma anche la propria maledizione. Ha scoperto l’elisir che generando amore gli ha consegnato il potere assoluto su ogni persona ma si rende conto che non potrà mai essere amato. Si incammina così verso Parigi e in piena notte giunge nella piazza del mercato dove era nato. Andando verso la folla di miserabili che vi bivaccano, versa su di sé l’intera ampolla, offrendosi inerme alla fine che ha scelto. La folla cenciosa attirata dal profumo irresistibile lo abbraccia sino a soffocarlo e ne divora, bramosa e antropofaga, le carni.
La mattina seguente, mentre il mercato si anima e del fatto tutti hanno perso memoria, sul selciato rimangono l’ombra di una macchia e l’ampolla ormai vuota che alcuni bambini si contendono. Jean Baptiste Grenouille è sparito dal mondo senza lasciare traccia, proprio come accade, prima o poi, a tutti gli odori.
Goffredo Bettini, l’ultimo alchimista della politica italiana e discendente dall’aristocratica schiatta marchigiana dei Rocchi Bertini Camerata Passionei Mazzoleni ha trovato probabilmente nel sotterraneo del castello avito l’antico alambicco da cui spera di distillare un nuovo esilir in grado di ammaliare gli italiani. Per quanto nato anche lui a Roma, è conterraneo di un altro nobile marchigiano il conte Paolo Gentiloni Silveri discendente dai signori di Cingoli, Filottrano, Macerata e Tolentino. Nobiltà di provincia si dirà, ma non per questo ritirata e discreta.
Eurodeputato fino al 2019, Bettini ha rivestito cariche a tutti i livelli istituzionali. Di lui Barbara Palombelli ha scritto il 15 marzo 2006 sul Corriere della Sera un articolo intitolato “Bettini, imperatore di Roma potentona” in cui si tratteggia la biografia dell’uomo più potente del Partito Democratico che negli ultimi trent’anni ha contato sul piano strategico molto più dei segretari nazionali.
Amico di intellettuali, scrittori ed attori della capitale e non solo, anfitrione ed ospite dei migliori salotti romani, sia nobili che del “generone” e non solo, intimo di finanzieri vicini al Partito Democratico e non solo, il Goffredo nazionale, vezzeggiato con il nomignolo di “panzarella” ha dato di sé questa definizione: «I miei maestri si chiamano Pietro Ingrao, Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte. I miei fratelli sono due il maggiore è Massimo D’Alema nella sua qualità di erede legittimo di quel patrimonio civile non rinnegabile e non cancellabile che è stato il PCI, l’altro è Walter Veltroni cui mi lega una complicità totale, quella che supporta e supera anche i litigi che per qualche anno, in passato, ci hanno tenuto lontani. Il mio primo brivido in piazza risale ai comizi di mio padre Vittorio, avvocato repubblicano, grande ed appassionato oratore».
Uomo di bocca buona dunque, in società, in politica e, non ultima delle sua croci, in quella cucina in cui sembra ora affannato a mescolare nuovi ingredienti da cui far sprigionare inediti profumi che potrebbero accompagnare il corso futuro del Partito dopo il crollo del muro di Berlino, ancora oggi inchiodato a quel 20% scarso che non è esattamente la vocazione maggioritaria che doveva guidarlo. Insomma, dalla Bolognina al Nazareno, passando per il Lingotto veltroniano e la Leopolda di Matteo Renzi.
La lettera di Bettini, immarcescibile Jep Gambardella della politica italiana, è stata pubblicata dal Corriere della Sera di alcuni giorni fa e sta scatenando intense reazioni, aprendo un ventaglio di ipotesi circa l’ingresso di Silvio Berlusconi e di ciò che resta di Forza Italia nella maggioranza già ora e nel governo, presto.
Ne è emanato un profumo sottile dietro il quale si intravedono le ombre di Giuseppe Conte e quelle che popolano il Movimento Cinque Stelle, uscito dagli Stati Generali con molti caporali e qualche colonnello che capeggia la sempre crescente fronda interna. Formeranno un direttorio. Ma non l’avevano già fatto qualche tempo fa?
Silvio Berlusconi, sempre sensibile alle lusinghe che ne rinnovano l’aspirazione ad essere considerato un padre della patria, quale che sia il nome del colle che gli viene offerto, raccoglierà presto l’invito e andrà in soccorso del Governo? Consapevole dello spazio ristretto che gli resta all’interno della coalizione che fu di centro-destra, parteciperà alla santificazione dell’Uomo della Provvidenza di cui ho scritto in passato?
Il soufflé potrebbe anche riuscire e il suo profumo diffondersi in un Paese che non vede l’ora di appigliarsi a prospettive che non siano il delirio di Matteo Salvini e il pericoloso sovranismo di Giorgia Meloni, pronti a fare inaridire la già precaria fonte dei fondi europei a cui sono appesi con un filo sottile il destino e la tenuta finanziaria ed economica dell’Italia che intanto quei miliardi promessi li sta già spendendo. Ma il destino potrebbe anche dare corpo ad un governo oggi e ad uno schieramento domani forse, ancora più ircocervo di quello attuale, resuscitando il lugubre vaticinio di Francesco Cossiga.
Riuscirà Goffredo Bettini con il magico elisir del potere che promette amore eterno e incondizionato a far convivere la tradizione liberale ed europeista di Forza Italia con una sinistra guidata dal Partito Democratico sempre più contagiato dal populismo, seppur in grisaglia, di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio, insidiati ed assediati da una base sempre più frustrata e delusa?
Forse in questo diffondersi di profumi mal assortiti, si dimenticherà che l’uomo di Arcore, l’avvocato del popolo e colui che siede oggi sulla poltrona che fu di de Gasperi, Nenni, Moro e Andreotti, non hanno avuto alcun pudore a governare con la Lega di Bossi ieri e di Matteo Salvini di recente, pur in atmosfere politiche diverse?
D’altronde, come si ricorderà, fu proprio Nicola Zingaretti a definire quasi un anno fa Giuseppe Conte un «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste». Forse è in nome di tale alta considerazione che il Partito Democratico ha dovuto ingoiare il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, la rinunzia allo jus soli, il mortificante tira e molla sui fondi europei per la sanità e più di recente la sospetta “terzietà” del M5S circa l’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Solo oggi, vedendo le stelle al tramonto, osa alzare un po’ di più la propria voce.
Possiamo solo augurarci che l’Italia colpita da un virus che quale primo segnale di attacco anestetizza il gusto e l’olfatto sappia sollecitare i propri anticorpi, rifiutando l’ennesimo inciucio che le verrebbe offerto sul vassoio d’argento del “bene del Paese” distinguendo tra i fumi di incenso e il puzzo di bruciato, un nuovo e più grave scippo alla sovranità popolare, tenuta troppo a lungo a freno dal suo Custode più alto.
C’è un’emergenza più grave della pandemia ed è data dall’acquisizione e dal mantenimento oltre misura del potere legittimo per perpetuare con l’inganno l’ossessione del potere personale. Poiché, piaccia o no, in forma più o meno costituzionalmente edulcorata, questo Paese alla fine i pieni poteri a qualcuno ha finito con il darli. Complice la pandemia si dirà, ma c’è sempre un complice cui dare la colpa in tali vicende!
Quel Dante Alighieri che celebriamo quest’anno in silenzio e con una punta di fastidio simile alla stizza con cui Pinocchio prende a martellate il Grillo Parlante, nel sesto Canto di ogni Cantica descrive la situazione politica attraverso tre personaggi chiave: nell’Inferno è Ciacco, un parassita di corte chiamato ad allietare i commensali con le sue sconce facezie, viene posto tra i golosi e del suo nome Guido da Pisa scrisse «Ciaccus lingua trusca porcum sonat, nam gulosus per peccatum gulae porci actibus similatur»; nell’Anti Purgatorio sta il poeta Sordello da Goito confuso nel labirinto dei morti per forza, senza avere avuto il tempo di pentirsi dei propri peccati. Egli lamenta le lotte intestine tra i Comuni e le Signorie che precludono ogni speranza di unità nazionale e suscita nel Poeta la nota invettiva «Ahi serva Italia…».
Nel Paradiso, a suscitare riflessioni politiche è l’imperatore romano d’Oriente, Giustiniano, che il Poeta ammira per il Codice che ne porta il nome; viene posto tra gli spiriti che si adoperarono con saggezza per la gloria terrena e per la giustizia, sommo bene, per il popolo. In tutti e tre i canti accorata e forte è la preoccupazione di Dante per la politica del suo tempo e ardente la speranza per quell’Italia di cui egli pose la lingua come prima pietra, inconsapevole di averne preconizzato il destino.
Rifletta dunque Goffredo Bettini e, se proprio deve esserlo, sia un buon Virgilio dello scanzonato quanto periclitante Segretario. Basta un attimo di distrazione da parte del profumiere ed anche la più sofisticata miscela di essenze può diventare un olezzo nauseabondo. In fondo anche il miglior profumo, di cui in genere sono inumiditi con poche gocce l’abito e l’elegante pochette, non è altro che il resto di sostanze morte e putrefatte. Chi lo indossa non lo sa e si concede compiaciuto agli applausi dei propri sicofanti, inebriati adoratori di quel fascino fatale dietro al quale si nasconde il nulla.