Strategie per il ColleLa corsa al Quirinale ha già cominciato a inquinare le decisioni dei politici

Alcuni aspiranti presidenti della Repubblica puntano sulla stabilità dell’attuale Parlamento e si adeguano usando slogan populisti e d’effetto. Altri pensano il contrario: allora stanno in silenzio e aspettano il crollo, per presentarsi come salvatori della patria. In entrambi i casi il loro contributo alle questioni del momento è condizionato dai calcoli sul futuro, ed è un male

Vincenzo Livieri - LaPresse

L’ultimo caso, un morbo talmente evidente da apparire smaccato, è quello che ha preso David Sassoli: ha rovesciato le regole comunitarie parlando addirittura di cancellazione dei debiti e soprattutto di revisione del Mes. Con relativo applauso populista e pacca sulle spalle da Di Maio e Salvini.

Il morbo di cui stiamo parlando è la corsa alla Presidenza della Repubblica prossima ventura. Siamo ormai entrati in un semestre nero di posizionamenti e di ammiccamenti di chi pensa di avere i voti necessari per battere tutti nella corsa al successore di Sergio Mattarella. Se metti insieme PD, Lega e M5S fai l’en plein.

Non si faccia finta che il problema ancora non esista. Tutto cammina pur sempre sulle gambe degli uomini, con le loro ambizioni. E ci sono già oggi almeno una decina di protagonisti politici con importanti ruoli che si muovono sulla scena seguendo una personale strategia quirinalizia.

Sono quelli che hanno scelto il movimentismo, con tanto di captatio benevolentiae del Parlamento oggi in carica, scommettendo che resti in piedi fino a gennaio 2022. Sono i fautori della stabilità, i tifosi non dichiarati dell’emergenza. Finché c’è Covid c’è speranza.

Quelli da battere davvero sono i candidati che scelgono la strategia opposta: non farsi notare, stare sdegnosamente in un angolo. Sono più o meno i potenziali salvatori della Patria, certi della caduta dei concorrenti prematuri, che saranno inesorabilmente bruciati, fino a quando qualcuno busserà alla loro porta.

Il più eminente dei silenziosi è naturalmente Mario Draghi, che non manda segnali ma il cui nome è talmente dato per scontato che forse è lui stesso il primo a temere per quello che sta accadendo attorno a lui. Forse spera in cuor suo che a nessuno venga in mente di portarlo a Palazzo Chigi, mission impossible più che gradino verso il Colle. Per bruciare anche lui.

Altri stanno a mezz’aria, facendosi sentire di tanto in tanto e comunque segnalandosi per ecumenismo e saggezza. Persino Romano Prodi ha un atteggiamento conciliante verso Silvio Berlusconi. I voti della destra almeno di quella moderata potrebbero essere utili. E del resto anche Berlusconi un pensierino lo fa: per questa legislatura proponendosi come sostegno lungimirante e disinteressato di questa maggioranza a pezzi, per la prossima come proposta condivisibile di un centrodestra che vincesse le elezioni.

La carica è importante. Non è più, come in passato, un luogo in cui confinare qualcuno, a condizione che non interferisse nelle cose quotidiane. Erano gli anni in cui al Colle saliva non un leader della politica contemporanea ma il risultato mediatorio di uno scontro talora sanguinoso per eliminare il leader rivale. Si spiegano così presidenze di uomini non di primo piano. Mai Fanfani o Andreotti, ma magari Pertini, Cossiga o Scalfaro.

Con Napolitano, e oggi con Mattarella, si è visto chiaramente che il Colle è ormai qualcosa di più di una garanzia: è una parte autorevole dei giochi. L’unico rischio di questa accresciuta e ancor legittima ingerenza politica è che le parti non ne tengano conto, lo lascino predicare ma non seguano le sue indicazioni. Il rischio cioè di una moral suasion che resti solo moral.

Il gioco, comunque, è tutto tattico e per ora si svolge nella previsione che sarà questo Parlamento a scegliere il prossimo Presidente.

Se le cose cambiano in peggio, ma anche all’opposto se accennassero a migliorare, la politica potrebbe fare come la Borsa al primo accenno di uscita del vaccino. Tutto verrebbe messo in discussione, in una ebollizione improvvisa, con in palio nuovo Parlamento, nuovo governo e nuovo Quirinale.

E infatti i pretendenti in campo sono ben più numerosi dei soli personaggi eminenti che per curriculum sono obbligatoriamente almeno da considerare.

Si spiega così una candidatura come quella di Dario Franceschini, uomo di seconda linea ma in grado di condizionare il PD e dunque pretendente plausibile. È lui che ha inventato i colori giallorossi prima della mossa di Renzi e prima ancora della stabilizzazione dell’alleanza, facendola diventare strategica, voluta da Bettini.

Il vero guaio di queste candidature sul futuro è il riflesso negativo sul presente.

Franceschini ha fatto molto bene il Ministro dei beni culturali, ma ora ha chiuso i Musei e i teatri senza troppe spiegazioni. Ci siamo giocati un buon Ministro.

Non sarebbe male insomma che questi posizionamenti non interferissero nelle vicende quotidiane. Sassoli ha fatto un pasticcio, con il moltiplicatore europeo incorporato. Meglio rendersi conto che dopo Mattarella arriverà o di nuovo Mattarella (è già successo con Napolitano) o un signore o una signora (infatti anche la Presidente del Senato ci sta pensando) che per ora non è sul proscenio delle candidature.

Ma c’è di peggio. Se tutti si propongono va a finire che a qualcuno viene in mente di trasferire da Palazzo Chigi al Quirinale l’avvocato del popolo, magari solo per fare un dispetto a tutti o qualcuno di questi aspiranti. Ma sarebbe un dispetto ad un Paese che con le elezioni del 2018 ha già dato.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter