Debolezze già esistentiLa scarsa produttività del lavoro è un problema che colpirà l’Italia anche dopo il Covid

La recessione provocata dalla pandemia si è concentrata su quei settori ad alta intensità considerati tra i più fragili proprio perché scontano una crescita stagnante. Il Recovery Fund è l’occasione per rallentare l’assistenzialismo rassicurante e incrementare la competitività delle imprese, dando così un futuro ai dipendenti

C’è una caratteristica di questa crisi che probabilmente sarà ancora più chiara quando tutto sarà finito, e che è relativamente nuova, anche se non difficile da intuire. È il fatto che va a perpetuare e accrescere debolezze già esistenti, che colpisce quelle realtà già di per sé fragili e deboli, in crisi, e i Paesi, come il nostro, in cui erano già più presenti.

Non era accaduta la stessa cosa durante la precedente crisi del 2008-13, che inizialmente aveva colpito le esportazioni, il settore finanziario, e quello immobiliare, che erano in crescita, per contagiare solo dopo tutto il sistema e avere un impatto che si è propagato, tramite il calo del credito e della domanda, in quasi ogni angolo dell’economia.

In questo caso la recessione provocata dalla pandemia da subito si è concentrata su quei settori ad alta intensità di lavoro e quasi sempre con margini inferiori come sono quelli in cui vi è grossa interazione con il pubblico come commercio, ristorazione, turismo.

Questi sono anche tra i più fragili e hanno peso non solo perché incidono nella nostra economia più che altrove, ma soprattutto perché scontano una carenza antica in Italia, una produttività del lavoro scarsa, tra le più basse in Occidente, che interessa soprattutto proprio i servizi.

La produttività del lavoro, intesa come crescita del PIL reale per persona occupata, è da vent’anni inferiore in Italia che nel resto d’Europa. È stata mediamente stagnante tra un -0,1% il 0,2% dal 2000 al 2019, con l’unica eccezione del 2017 quando è stata del 0,9%, rimanendo comunque negli altri anni più bassa di molti decimali, a volte di un intero punto, a quella europea o anche solo tedesca.

È chiaramente il risultato soprattutto della bassa crescita del PIL, ma anche del fatto che con la ripresa si è privilegiata l’aumento dell’occupazione, spesso di bassa qualità, in settori appunto come il commercio, agli investimenti per acquisire competenza.

La notizia è che questo andazzo continuerà anche dopo la crisi secondo le previsioni della Commissione Europea. Dopo l’illusione ottica del 2020, quando a causa del crollo dell’occupazione, -10,3%, addirittura superiore a quella del PIL, o per meglio dire delle ore lavorate a causa dell’uso massiccio della cassa integrazione, la produttività del lavoro apparirà addirittura positiva e molto maggiore che in Europa e in Germania.

Ma il 2021 e il 2022 tornerà il solito trend. Nel 2021 il ritorno al lavoro di molti dopo la fine prevista della CIG sarà più forte del rimbalzo del PIL, che del resto non è stimato essere travolgente rispetto a quello degli altri Paesi, del 4,1%, mentre nel 2022 la produttività del lavoro sarà di nuovo positiva, ma solo del 0,4%, meno di quella europea, dell’1,4%, o tedesca, dell’1,9%.

Dati della Commissione Europea

Nel complesso dei tre anni il bilancio per l’Italia è più negativo che per gli altri Paesi, e riguardo alla previsione per il 2021 sembra esserci una delle maggiori correzioni, in peggio, rispetto alle stime primaverili della stessa Commissione, in parte per una ripresa del PIL che è vista nel nostro Paese come meno forte, in parte per un rimbalzo maggiore dell’occupazione, artificiale tuttavia poiché drogato dall’uscita dall’uso massiccio attuale della Cassa Integrazione.

Dati della Commissione Europea, dati per il 2021

In realtà a livello di persone occupate, e non di ore lavorate, sia nel 2021 che nel 2022 le variazioni saranno più deludenti che nel resto d’Europa, con un calo del 0,5% (del 0,2% nella UE) nel 2021 e un aumento del 0,7% (dell’1% nella UE) nel 2022.

Anche questi sono l’esito di una produttività del lavoro scarsa negli anni passati. La minore competitività del sistema Italia e del suo capitale umano ha salvato sì nel breve periodo l’occupazione dai tracolli che per esempio si sono visti in Spagna o negli USA durante la crisi, quando i posti persi sono stati molti di più che nel nostro Paese. Del resto è vero che all’inizio una maggiore produttività si raggiunge anche con un minore utilizzo di forza lavoro per prodotto, anche con licenziamenti, e che questi si evitano rimanendo poco produttivi.

Tuttavia, dopo è la produttività stessa che consente di essere competitivi, incrementare il PIL, e, fatto non secondario, i salari, e alla fine vedere un rimbalzo occupazionale più che compensativo. Che è quello che abbiamo visto appunto in Spagna dopo il 2011 e in Germania dopo le riforme del lavoro della prima metà degli anni 2000.

Se non vi saranno cambiamenti significativi il destino è quello di replicare quindi i risultati del passato. E non solo noi. Vi è una corrispondenza chiara tra le performance medie della produttività del lavoro tra il 2001 e il 2019 e quella del 2020-2021-2022. Chi era indietro allora sembra destinato esserlo anche domani.

Dati della Commissione Europea

E naturalmente anche i prossimi anni i Paesi sotto la media quanto a produttività del lavoro avranno anche una crescita dei salari reali inferiore alla media.

Dati della Commissione Europea, Italia in rosso

Poteva andare peggio, secondo Banca d’Italia alcune riforme effettuate negli ultimi dieci anni, come le liberalizzazioni nei servizi, gli incentivi agli investimenti in Industria 4.0, la riforma della giustizia civile, hanno innalzato la produttività totale, probabilmente più quella del capitale, ma anche quella del lavoro, e quindi la crescita del PIL.

Dopo il 2017 non si sono viste altre riforme, si è pensato di più a un assistenzialismo rassicurante, anche prima del Covid, figuriamoci durante. Ora l’occasione da non perdere è il Recovery Fund, sarà aspro il conflitto tra chi vorrà usarlo per innalzare la competitività delle imprese, passando innanzitutto attraverso quella di chi ci lavora, e chi vorrà usarlo come moneta elettorale calciando un po’ più in là la palla, rimandando ancora il tema produttività.

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