Nazionalismo sterileLa lezione di Cechia e Slovacchia alla Bulgaria sull’identità nazionale

Sofia non vuole far entrare nell’Unione europea la Macedonia del Nord finché Skopje non ammetterà ufficialmente che la sua tradizione è una costola di quella bulgara. Praga e Bratislava hanno pubblicato una dichiarazione per chiarire che nessuno può imporre la sua visione della storia. Altrimenti scoppierebbero controversie tra diversi Paesi Ue

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Giovedì scorso Tomàš Petríček e Ivan Korčok, ministri degli Esteri di Cechia e Slovacchia, hanno pubblicato una dichiarazione congiunta per spiegare che non intendono approvare la versione emendata delle conclusioni sul processo di allargamento, che avrebbe dovuto essere accolta nella riunione del Consiglio dell’Unione europea. 

I nuovi emendamenti erano stati introdotti per accomodare le esigenze espresse dalla Bulgaria, che lo scorso mese aveva posto il veto sull’inizio ufficiale dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord, accampando irrisolte controversie storico-identitarie. Sofia esige che Skopje rinunci alle proprie rivendicazioni su temi come lingua, storia e identità nazionale, ovvero che avalli sostanzialmente il punto di vista bulgaro, secondo cui i macedoni non sono che connazionali rimasti per sbaglio separati dalla madrepatria

La dichiarazione ceco-slovacca non si è premurata di sottolineare soltanto che «la versione attuale del testo include elementi come la nozione di falsificazione della storia che secondo noi sarebbero molto dannosi per il processo di allargamento», ma anche di ammonire contro i rischi sistemici. «Non lasceremo che sia l’Unione a giudicare la nostra storia condivisa, come ci identifichiamo e la lingua che usiamo. Queste sono scelte che riguardano le parti in causa e noi siamo qui per supportarle con l’esperienza che abbiamo acquisito nei processi di riconciliazione», si legge nel comunicato.  

Come notato dal professor Florian Bieber, citato da Linkiesta in occasione del niet bulgaro, «l’Unione si fonda sul riconoscimento della diversità e della differenza. Fare spazio alle identità differenti è un presupposto cruciale per l’Europa e permette di lavorare assieme senza imporre la propria visione del passato, o la propria nazionalità, agli altri». Ovvero, accettando le lagnanze pretestuose della Bulgaria l’Ue rinnega la sua stessa raison d’être

Finché le vittime sono i paesi candidati, privi di qualunque potere negoziale e costretti a subire i ricatti dei vicini che già appartengono al club comunitario, poco male: a risentirne è solo la credibilità dell’Ue. Qualora l’atteggiamento del governo bulgaro venisse però emulato da altri Stati membri, o diventasse una prassi comune, le conseguenze sarebbero notevoli anche per l’armonia interna del blocco comunitario. Da vicenda marginale, la questione potrebbe trasformarsi rapidamente in una questione di principio. Alle divergenze sul presente e sul futuro, già numerose, si sommerebbero quelle sul passato – un ambito potenzialmente esplosivo.  

Come noto, molti Stati Ue sono divisi da controversie identitarie e diverse interpretazioni degli stessi episodi: Germania e Francia, Ungheria e Romania, Lituania e Polonia, Italia e Slovenia, Slovenia e Croazia. E l’elenco potrebbe continuare. 

Era quindi questione di tempo prima che qualche altro Stato Ue intervenisse per sanare questo vulnus. Come ha riassunto la giornalista Una Hajdari, collaboratrice di Politico e New York Times, le due capitali mitteleuropee hanno tolto a Sofia la possibilità di essere l’unica a bollare la storia degli altri come “falsa”. 

La reazione di Praga e Bratislava è stata quindi una reazione di buon senso, uno squillo di candido “europeismo” nel deserto sovranista in espansione. Arrivato non a caso da due paesi che condividono molto del proprio patrimonio-storico comune, come Bulgaria e Macedonia del Nord. 

Cechia e Slovacchia hanno passato pressoché tutto il Novecento unite nello stessa costruzione statale, la Cecoslovacchia, emersa nel 1918 sulle ceneri dell’impero austro-ungarico. Si sono separate solo nel 1993 tramite il cosiddetto divorzio di velluto, dal nome di quella “rivoluzione di velluto” capeggiata dal dissidente Václav Havel con cui il paese si era liberato del giogo comunista pochi anni prima. 

Lo slovacco e il ceco sono riconosciute come due lingue autonome, ma sono pressoché indistinguibili. Somiglianza che fa sì che entrambe le popolazioni appartengano alla stessa koiné e consumino gli stessi prodotti culturali nei campi della letteratura, cinematografia, musica. Molte figure centrali della storia e della politica ceche, come Alexander Dubček, eroe della fallita Primavera di Praga, erano di nazionalità slovacca, come lo è l’attuale premier ceco Andrej Babiš. Tacitamente, sia cechi che slovacchi accettano di essere un popolo unico, con delle differenziazioni interne – come ci sono, tuttavia, anche tra boemi e moravi, sulla carta semplicemente “cechi”. Se un domani, un eventuale premier ceco di orientamento ultra-nazionalista si prodigasse per imporre ai vicini di riconoscere di essere soltanto cechi rimasti dall’altra parte del confine, sprovvisti di un’identità, di una cultura e una storia autonome e peculiari, si scatenerebbe il caos. 

La differenza principale tra cechi e slovacchi è la medesima che intercorre tra bulgari e macedoni: i primi hanno iniziato il loro processo di creazione dell’identità nazionale – spacciato come riscoperta dell’identità nazionale, quando da riscoprire c’era poco, da inventare ex novo molto – molto prima dei secondi. Questa fa sì che l’identità nazionale di cechi e bulgari, più longeva, sembri più “reale” di quella di slovacchi e macedoni, sopraggiunti al banchetto delle piccole patrie più tardi degli altri convitati. 

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