Due eventi accaduti negli ultimi giorni hanno squadernato in modo spietato l’inanità dell’azione dell’Unione nei Balcani occidentali, esponendo con un tempismo casuale ma eloquente le ragioni della sua intrinseca incoerenza.
Il 10 novembre al vertice di Sofia, presieduto congiuntamente da Bulgaria e Macedonia del Nord, i sei Stati dei Balcani occidentali candidati a entrare nell’Unione – Serbia, Kosovo, Macedonia del Nord, Albania, Bosnia Erzegovina e Montenegro – hanno sottoscritto la Dichiarazione sul mercato regionale comune (Declaration on Common Regional Market – Crm) e l’Agenda verde per i Balcani occidentali, che li impegna ad allinearsi agli obiettivi del Green deal europeo.
Nell’occasione è stata anche presa nota formale del Piano economico di investimenti per i Balcani occidentali, il pacchetto di fondi pre-adesione (dal valore totale 9 miliardi) che la Commissione europea vorrebbe distribuire ai sei Paesi candidati nel contesto del bilancio pluriennale 2021-27, attualmente al vaglio degli Stati membri.
I sei leader hanno inoltre espresso il loro favore a una pletora di altre iniziative condivise, come alcune relative all’integrazione delle comunità rom e al maggior coinvolgimento dei giovani nel mercato del lavoro, necessario per contrastare la fuga dei cervelli, una delle spade di Damocle che incombe sul futuro della regione, già oggetto oggi di un’intensa crisi demografica.
Sottolineando come il summit fosse stato organizzato nel contesto del cosiddetto “Processo di Berlino”, l’iniziativa con cui alcuni Stati dell’Unione (capitanati dalla Germania) puntano a incrementare la cooperazione interstatale della regione e agevolarne così l’integrazione in Europa, l’ufficio stampa del Servizio europeo per l’azione esterna ha scelto di enfatizzare una novità. Il summit di Sofia è stato il primo di questa serie di appuntamenti annuali a venir organizzato assieme da uno Stato candidato – la Macedonia del Nord – e uno Stato membro – la Bulgaria. Un segnale positivo per il processo di allargamento, che vive della sinergia tra i gli Stati membri, gli aspiranti balcanici e le istituzioni europee.
Esattamente una settimana dopo la Bulgaria ha bloccato l’inizio delle negoziazioni per l’adesione della Macedonia del Nord. In una riunione online tra con i colleghi degli altri 26 Paesi dell’Unione, la ministra degli Esteri Ekaterina Zaharieva ha vagheggiato di controversie storiografiche e identitarie (vicenda già riassunta da Linkiesta) che rendebbero oggi impossibile a Sofia supportare il varo delle trattative con il Paese vicino. Un passaggio che, per Macedonia del Nord e Albania, il Consiglio europeo aveva formalmente approvato lo scorso marzo e che dovrebbe concretizzarsi in una prima conferenza intergovernativa il prossimo dicembre.
Chi segue poco le vicende del processo di adesione dei Balcani occidentali potrebbe trovarsi spiazzato davanti a questa apparente schizofrenia. Il fenomeno, ribattezzato “nazionalizzazione del processo di adesione”, è però notato da anni dagli addetti ai lavori: per grette esigenze di consenso interno, gli Stati membri utilizzano il loro potere di veto per ricattare gli Stati candidati, obbligandoli a rispettare condizioni ulteriori a quelle ufficialmente imposte e monitorate dalla Commissione europea (l’adozione del famigerato acquis communautaire), sulla carta l’ente responsabile dell’intero processo. Limitandosi al nuovo millennio, lo fece la Slovenia con la Croazia, l’ha fatto la Grecia con Macedonia (del Nord) e Albania, lo fanno la Croazia con Bosnia Erzegovina e Serbia e appunto la Bulgaria ancora con la Macedonia del Nord. Questo nonostante i due Stati abbiano già siglato un Trattato di amicizia tre anni fa, che prevede anche l’istituzione di una commissione storica mista per definire una versione condivisa degli eventi storici recenti che hanno interessato entrambe le popolazioni. Ma Sofia ha deciso di inviare perlopiù accademici di orientamento nazionalista, dando l’impressione che il suo vero obiettivo fosse piuttosto far digerire all’interlocutore la propria interpretazione storica e pervenire a un’intesa nel più breve tempo possibile.
Se questa indisponibilità ad aprire concretamente i negoziati non rappresenta quindi una novità sostanziale, è comunque lecito restare perplessi dalla coincidenza temporale. Nell’arco di una settimana si assiste sia al profluvio di impegni formali, promesse di stanziamento di miliardi di euro, proliferazione di comunicati stampa in eurocratese corrisposti da dispacci simili da parte delle capitali balcaniche sia allo stop dei negoziati, l’unico traguardo politicamente rilevante. Deciso dallo stesso Paese che sette giorni prima aveva ospitato un vertice finalizzato proprio a quello scopo. Ai danni dello stesso Paese la cui classe dirigente, l’unica sinceramente europeista tra quella al potere nella penisola balcanica, aveva già dovuto incassare (e sopravvivere) al non all’inizio dei negoziati sancito dal Consiglio europeo l’ottobre dell’anno scorso su diktat del francese Emmanuel Macron.
Una commedia poco edificante, inscenata peraltro nel primo anno di vita della “Commissione geopolitica” annunciata dalla presidente Ursula Von Der Leyen.
Di fronte a queste annotazioni, cui sovente gli europeisti più inveterati fanno spallucce, ribadendo come perlomeno l’insieme dei provvedimenti proposti e patrocinati dalle istituzioni europee abbia un effetto benefico per le società dei paesi candidati e intervenga su ambiti chiave – come tutela delle minoranze, protezione dell’ambiente, potenziamento dei diritti civili – che sarebbero altrimenti trascurati dalle élite locali.
Tuttavia, sminuire – e quindi negare – questo vulnus costitutivo che azzoppa la politica di allargamento dell’Unione, e probabilmente la sua intera politica estera, fa esattamente il gioco dei nemici dell’Europa. Nemici che operano nei Balcani occidentali (le fazioni ultra-nazionaliste ed euroscettiche), come negli Stati membri (la cricca del premier ungherese Viktor Orbán o il conglomerato politico-confessionale che governa la Polonia dal 2015) e in Stati terzi, Russia in testa.
Come ricorda laconico Florian Bieber, uno dei più attenti studiosi dell’ex Jugoslavia, «l’Unione si fonda sul riconoscimento della diversità e della differenza. Fare spazio alle identità differenti è un presupposto cruciale per l’Europa e permette di lavorare assieme senza imporre la propria visione visione del passato, o la propria nazionalità, agli altri (..) Ci sono parecchie controversie storiche tra gli Stati membri ed è bene che si lasci campo agli storici per collaborare e definire uno spazio comune. Ma il loro lavoro non è ‘riconoscere’ la verità, come vorrebbe il governo bulgaro».