Nazionalismo sterilePerché la Bulgaria non vuole fare entrare la Macedonia del Nord nell’Unione europea

Sofia non riconosce l’esistenza di una nazione macedone distinta da quella bulgara e considera lo Stato confinante semplicemente come un proprio territorio sottrattole ingiustamente. Ecco perché vuole negare ai vicini qualunque forma di unicità

LaPresse

«Se oggi nessuno contesta pubblicamente la legittimità dell’identità macedone, c’è ancora qualcuno che realmente non crede che i Macedoni, come popolo, possano farcela come nazione slava separata. Questo punto di vista è forte specialmente in Bulgaria, dove molti ritengono in buona fede che i loro vicini sono bulgari nel profondo. Questa convinzione è radicata nella storia tortuosa dei Balcani, sia in quella medievale che in quella moderna, che ha condotto a varie interpretazioni (..)

A livello politico, la Bulgaria ha predisposto piani formali per aiutare il lavoro della sua vicina per l’adesione all’Unione Europea (..) In questo nuovo contesto, la visione bulgara della Macedonia appare fondata su valori civili e liberali. L’ambasciatore Yordanov ha sottolineato l’importanza delle questioni riguardanti l’Unione Europea e ha minimizzato quelle come la disputa riguardante la lingua Macedone/Bulgara». 

Il lettore più affrettato potrebbe non rendersi conto subito che questa citazione è tratta da un articolo del 2005. Tolti alcuni nomi propri, l’analisi potrebbe essere riproposta intonsa oggi. 

Il 17 novembre scorso, quindici anni dopo l’uscita di quel pezzo, la Bulgaria ha infatti bloccato l’apertura ufficiale dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord, adducendo come motivazioni la persistenza di controversie storico-identitarie non ancora sanate. 

Come già riassunto da Linkiesta, le ragioni reali attengono molto di più alla politica interna che alla storiografia. Da mesi il governo guidato da Boyko Borissov è contestato da imponenti proteste di piazza. Alcuni suoi membri, su tutti il ministro della Difesa Krasimir Karakachanov, stanno cercando di salvare le proprie fortune politiche rinfocolando istanze scioviniste utili a distrarre l’attenzione di una fetta dell’opinione pubblica. 

Queste grette esigenze di consenso interno minano la politica dell’Unione europea nei Balcani occidentali, soprattutto perché colpiscono un governo, come quello macedone, che si è già dimostrato, unicum nella regione, aperto al compromesso diplomatico, come nel caso dell’intesa sul nome finalizzata con la Grecia tra 2018 e 2019. 

E in realtà anche nel caso della Bulgaria, con cui il governo guidato – allora come oggi – dal socialdemocratico Zoran Zaev siglò un Trattato di amicizia il primo agosto 2017, pochi mesi dopo essersi insediato.  

Come previsto da questo trattato, firmato simbolicamente il giorno prima dell’anniversario della rivolta di Ilinden (1903), l’insurrezione anti-ottomana che entrambe le popolazioni celebrano come caposaldo della propria identità nazionale, Sofia e Skopje hanno istituito una commissione accademica congiunta per valutare collaborativamente eventi storici comuni e confrontarsi sulle questioni identitarie più controverse. Questo conciliabolo non è però finora riuscito a elaborare una soluzione condivisa. Dopo aver già vissuto una lunga pausa, i colloqui erano stati nuovamente sospesi lo scorso ottobre, con l’ennesima fumata nera. 

Pur ribadendo la finalità politica del veto imposto dalla Bulgaria, è lecito chiedersi quali siano esattamente le questioni che dividono bulgari e “macedoni”. Intendendo con questo termine non l’intera popolazione che abita l’attuale Macedonia del Nord, composta da minoranze anche cospicue di albanesi, serbi, turchi e rom, ma solo la sua componente maggioritaria, più correttamente definiti “slavo-macedoni”.   

In breve: la Bulgaria non riconosce l’esistenza di una nazione macedone distinta da quella bulgara. Tutte le sue rimostranze vanno nella direzione di negare ai vicini qualunque forma di unicità, cancellando in ogni sfera semantica la possibilità di utilizzare il concetto di “macedone”. 

Sofia non ammette l’esistenza di una lingua macedone: la ritiene un mero dialetto bulgaro che sarebbe stato artificialmente codificato come lingua dalla Jugoslavia socialista, quando la Macedonia era una delle sei repubbliche della Federazione, per instillare nella popolazione un sentimento anti-bulgaro. 

Allo stesso modo, la Bulgaria non ammette né l’esistenza di una minoranza macedone sul proprio territorio, né quella di una minoranza bulgara in Macedonia del Nord, sostenendo che si tratti della medesima popolazione. 

Così come non ammette che sia mai esistita un’identità macedone nemmeno in passato, rivendicando come bulgari tutti gli eroi nazionali, in primis il rivoluzionario nazionalista anti-ottomano Goce Delčev protagonista della rivolta di Ilinden, che si coprirono di gloria nei secoli passati. 

Incidentalmente, considerando il territorio dello Stato vicino semplicemente come un proprio territorio sottrattole ingiustamente, Sofia tende a rifiutare la definizione di “invasione” per classificare i fatti del maggio 1941. L’allora Bulgaria monarchica – alleata dell’Asse – occupò militarmente l’attuale territorio della Macedonia del Nord, parte fin dalla seconda guerra balcanica (1913) del Regno dei Serbi – divenuto dopo la fine della Grande guerra nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni). Territorio che non era sacra terra bulgara da tempo immemore, ma era stato acquisito dal neonato regno di Bulgaria meno di mezzo secolo prima, con il trattato di Santo Stefano, stipulato dopo la guerra russo-turca (1877-78). 

La scorsa settimana il premier macedone Zaev, apparentemente disposto a qualunque compromesso pur di rilanciare l’adesione del suo paese all’Ue, ha sollevato un polverone in patria affermando di non voler più considerare i bulgari come «una forza di occupazione fascista» e vantandosi di aver fatto rimuovere alcune targhe commemorative che adottavano tale denominazione. Uno scenario distopico, da ministero della Verità orwelliano, criticato da alcuni come il segnale che l’esecutivo sia pronto a immolare le rivendicazioni tradizionali della Macedonia del Nord sull’altare della prospettiva europea.  

Skopje ha infatti sempre rivendicato l’esistenza di una peculiarità macedone, nonostante le somiglianze con i vicini. Tesi fondata soprattutto sul fatto che una regione storica denominata “Macedonia”, comprendente territori oggi appartenenti a Macedonia del Nord, Bulgaria e Grecia, sia effettivamente sempre esistita. 

Se è sempre esistita la Macedonia, come potrebbero non esistere i macedoni?, si chiede la repubblica post-jugoslava, dimenticando – o fingendo di dimenticare – che lo stesso significante (“macedoni”) ha assunto significati differenti nei secoli.  

Un’ambiguità spinta fino alle estreme conseguenze dalle politiche identitarie delll’autocrate macedone Nikola Gruevski, al potere tra 2006 e 2016. Dopo aver incassato il veto all’entrata nella Nato da parte della Grecia al vertice di Bucarest (2008) per l’annosa vicenda del nome, Gruevski decise di puntare sul nazionalismo. Lanciò una campagna pseudo-storica (antikvizacija, antichizzazione) volta a rivendicare una continuità storica tra gli slavo-macedoni del presente e il regno di Macedonia del IV secolo a.C., abitato da un popolo di cultura e Weltanschauung elleniche e guidato da condottieri come Filippo II e Alessandro Magno. 

Il frutto più tangibile di questa iniziativa propagandistica è stato il progetto Skopje 2014, concretizzatosi soprattutto nell’edificazione nel centro delle capitale di decine di statue neoclassiche e grecizzanti, tra cui un guerriero a cavallo alto quasi 15 metri che ricorda molto l’iconografia di Alessandro Magno, eroi nazionali come Goce Delčev e figure cardinali della fede ortodossa. 

Questa operazione dal dubbio valore estetico non fu nefasta solo per la skyline di Skopje, ribattezzata «nuova capitale del kitsch», ma anche per le casse macedoni. Ii lavori furono appaltati ad accoliti di Gruevski e le spese lievitarono come per magia.  

Vista in prospettiva, la trovata di Gruevski e del suo clan ha minato anzichè consolidarle le fondamenta della supposta identità nazionale macedone. Ha dimostrato come, consci di essere una popolazione sostanzialmente bulgara relegata oltreconfine da episodi bellici e accordi a tavolino, i macedoni siano pronti ad aggrapparsi a teorie grottesche e storiograficamente fatue come quella che li vorrebbe discendenti di Alessandro Mago pur di affermare una propria unicità. 

Sarebbe come se i galiziani iberici rivendicassero l’annessione dei territori della Galizia storica, oggi in Ucraina, in virtù del nome comune, o se i gli inglesi accampassero (ancora) diritti sugli Usa negando che abbiano – ormai – una loro identità nazionale, pur composita. 

Le quattordici modifiche ai testi scolastici macedoni suggerite dai membri bulgari della commissione potrebbero quindi essere anche accurate sotto il profilo dell’interpretazione storica.  

Tuttavia, gli studiosi che si occupano di nazionalismo tendono a vedere tutte le nazioni, e non solo alcune, come costrutti sociali: comunità immaginate fondate su tradizioni inventate: gruppi sociali demarcati tramite forzature artificiali, conformi a criteri fintamente oggettivi come confini, affinità linguistiche, culti comuni. 

In questo senso la dannazione della Macedonia deriva esclusivamente dall’esser arrivata troppo tardi al festival del nazionalismo, ancora più tardi del resto delle popolazioni balcaniche, impegnate anche oggi a spacciar diversità quasi impercettibili come pilastri di identità nazionali irriducibilmente diverse da quelle dei vicini. Esempio classico: la lingua serbo-croata che, dopo le guerre di dissoluzione dell’ex Jugoslavia negli anni ’90, è stata spacchettata (finora) in serbo, croato, montenegrino, bosniaco, pur rimanendo sostanzialmente identica.  

Come l’Italia accetta l’esistenza dei ticinesi svizzeri, la Francia quella dei valdostani italiani, l’Irlanda quella dei nordirlandesi britannici, pare giunto il tempo anche per la Bulgaria di accantonare pretese anacronistiche e far seguire i fatti a intenzioni più volte sbandierate – supportare l’integrazione Ue dei Balcani occidentali. 

Continuando a sfruttare il diritto di veto garantitole in sede comunitaria per ricattare lo Stato vicino e ricavare briciole di popolarità effimera in patria, la sua classe dirigente ricade nel più deteriore stereotipo balcanista, l’immaginario denigratorio che dipinge le popolazione della penisola come ossessionate dalle vertenze storiche e incapaci di accogliere la modernità. 

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