I leader politici devono saper proiettare un’immagine di sicurezza, perfezione e ottimismo. È una caratteristica di cui hanno bisogno nel quotidiano, ma ne hanno bisogno anche i cittadini e gli elettori che li scelgono. E vale anche per i leader del passato: è per questo che prima ancora dei risultati che raggiungono, dei valori misurabili come il Pil o il tasso di occupazione, è l’immagine di sé che restituiscono alla comunità a caratterizzare presidenti e primi ministri.
Parte da qui una lunga analisi pubblicata sull’Atlantic dal gironalista Tom McTague: l’eredità di Margaret Thatcher e Barack Obama diventa l’aggancio per raccontare cosa significa e che peso ha l’immagine pubblica di un ex presidente o primo ministro, e quanto importante è per loro mantenere quell’aura di perfezione – o quasi – che li avvolge.
Thatcher e Obama sono leader molto distanti, quasi opposti, sia in termini politici sia nel profilo umano: inevitabilmente sarà diverso anche il loro rapporto con la storia del Regno Unito e degli Stati Uniti. La Lady di ferro è un personaggio divisivo, lo è sempre stato, sia da premier in carica, sia dopo: «Un’eroina per alcuni, una strega caricaturale per altri. La sua leadership si è basata su forza d’animo, coerenza, serietà», scrive McTague.
Sebbene l’amministrazione Obama sia stata segnata da proteste e critiche da diverse parti della società americana, la sua popolarità è piuttosto stabile durevole e i rancori della destra oggi sembrano avere altri bersagli: nel descriverlo oggi si esaltano quasi unicamente quelle qualità morali – ottimismo, pacatezza, fiducia – che già erano state apprezzate negli otto anni di presidenza; forse anche a causa di un banale accostamento con Donald Trump, che invece ha un approccio diametralmente opposto.
Nonostante la differenza tra i due leader, c’è un fil rouge che li unisce: «Thatcher e Obama sono simboli di cause più grandi di loro, icone da venerare, personaggi da rimpiangere: ambasciatori di un’epoca perduta, le cui narrazioni fanno notare soprattutto quanto manchino oggi», si legge nell’articolo dell’Atlantic.
Ma non solo, c’è qualcosa di ancora più forte che lega Thatcher e Obama: «Sono profeti venuti per incarnare le storie dei loro paesi – scrive McTague – e in modo cruciale hanno contribuito a modellare quelle stesse narrazioni. Sono coloro che hanno piegato la storia alla loro volontà imponendo le loro visioni, il loro stile, le loro idee. Entrambi sono divenuto quasi figure mitologiche».
Cinema, tv e letteratura stanno alimentando il loro mito. Negli ultimi giorni la serie Netflix “The Crown”, lo show televisivo on demand del momento, dipinge Margareth Thatcher esattamente come la sua immagine e la sua eredità richiedono: nella serie si vede un politico convinto che il Regno Unito vada riformato da cima a fondo, che si impegna per combattere con i rappresentanti del suo governo, contro l’Argentina, contro le sue stesse emozioni, pur di ottemperare a quello che considera il suo dovere.
«Il ritratto della Thatcher in “The Crown” – si legge nell’articolo – evoca una forma di nostalgia per la certezza del passato che è arrivata a rappresentare. E con il senno di poi sappiamo che su tante cose aveva ragione: ad esempio sulla necessità di ricostruire l’economia moribonda della Gran Bretagna o riconquistare le Isole Falkland».
In questo modo viene corroborata la narrazione che lei stessa ha voluto costruire e che il tempo ha contribuito a cristallizzare. È un racconto quasi superficiale della Thatcher. «Nel 1979, quando entrò a Downing Street, la spesa pubblica rappresentava il 41% del bilancio britannico. Non è mai scesa al di sotto del 40 per cento fino al 1986, ed è stato necessario un boom economico sostenuto perché scendesse al 35 per cento nel momento in cui ha lasciato l’incarico nel 1990. Allo stesso modo, le entrate fiscali sono passate dal 37 per cento al 34 per cento negli undici anni al governo. Un cambiamento significativo, ma non proprio uno stravolgimento epocale. In sostanza, la Gran Bretagna non è stata rimodellata dalla testa ai piedi negli anni della Lady di ferro come si dice», scrive l’Atlantic.
È come se la storia che raccontiamo fosse stereotipata: è il mito di Margaret Thatcher che precede il personaggio politico. Lo stesso si potrebbe già dire anche di Obama, in un certo senso. In una recente intervista con l’Atlantic, l’ex presidente aveva detto di leggere l’elezione di Trump nel 2016 solo in parte come una conseguenza del suo doppio mandato, ma sarebbe soprattutto un prodotto della polarizzazione del dibattito politico – un fenomeno iniziato prima di lui e ancora in corso. In questo modo Obama ha slegato l’elezione di Trump dalla sua eredità: non è colpa sua, non è lui in difetto, non ha sbagliato le valutazioni; sono le circostanze esterne.
Una giustificazione che hanno dato in passato anche Gordon Brown e Tony Blair, David Cameron e Jeremy Corbyn, ma anche a Hillary Clinton: «La domanda che dovrebbero porsi questi leader, a partire da Obama, è come può quello stesso elettorato che li aveva scelti aver cambiato idea e poi votato per un candidato più debole, più populista, o semplicemente peggiore», scrive McTague sull’Atlantic.
Non si tratta solo di accettare o meno la sconfitta. È un discorso che abbraccia in maniera più ampia il lascito e l’immagine che vogliono costruire i leader politici. Si potrebbe fare l’esercizio opposto guardando l’altro lato dello spettro, con gli interrogativi che invece si affastellano se si prova a immaginare il futuro politico di Donald Trump: ancora adesso ha una base elettorale molto solida e numerosa, ma una volta lasciata la Casa Bianca il personaggio Trump potrebbe essere rivalutato negativamente anche da chi lo sostiene oggi.
Lo spiega in un articolo Michelle Goldberg, nella colonna d’opinione del New York Times: «Una volta che Trump non sarà più presidente, è probabile che venga consumato da cause legali e indagini penali. Arriveranno centinaia di milioni di dollari di debiti. Dopo quattro anni di auto-umiliazione in stile cartone animato, i repubblicani con ambizione presidenziale avranno un incentivo per scalzarlo».
Di leader politici pubblicamente pentiti del loro operato, o di un singolo aspetto della loro avventura politica non ce ne sono molti. L’Atlantic cita l’esempio di Robert McNamara, che ha ammesso di aver sbagliato clamorosamente le valutazioni sulla guerra in Vietnam. Ma specifica che la storia non ricorderà McNamara come Barack Obama o Margaret Thatcher, e il paragone non può reggere.
Per gli ex leader politici c’è una regola da tenere a mente, spiega Tom McTague nel suo articolo: «Non possono permettere in alcun modo che qualcosa possa minare la loro visione politica dimostrando che era sbagliata. Si possono fare ammissioni ai margini, anche riflessioni autoironiche, ma non si possono ammettere fallimenti di lungimiranza o di carattere».
Non va intesa come spocchia, altezzosità, presunzione. Se è vero, come sosteneva il filosofo politico Edmund Burke, che l’arte di governo richiede di tenere una linea di condotta politica immaginando la probabile evoluzione degli eventi, allora «per qualsiasi statista ammettere di non essere riuscito a prevedere il futuro significa ammettere di aver fallito come statista. Vengono invece create nuove narrazioni che riformulano il presente in modo da confermare ciò che loro avevano previsto».
È per questo che Obama, nel suo libro di memorie, scrive «sono convinto che la pandemia sia solo un’interruzione nell’inesorabile marcia verso un mondo interconnesso», nonostante la prima reazione dei governi, più o meno in tutto il mondo, sia stata una chiusura ermetica dei confini, l’unico modo per rallentare la diffusione del virus. Ma se Obama mettesse in discussione la sua visione del mondo interconnesso, il suo multilateralismo, creerebbe delle crepe nella sua immagine. E non converrebbe a nessuno: né a lui, né a chi lo guarda, lo ascolta e lo ricorda.
«Dobbiamo credere – conclude McTague sull’Atlantic – che la Thatcher abbia cambiato la Gran Bretagna attraverso il coraggio, la determinazione e la visione; che Obama abbia riscattato l’America e le abbia fatto ascoltare le sue voci migliori. I nostri leader devono restituire un’immagine di perfezione. È quello che cerchiamo in loro. Ne abbiamo bisogno».