Da quando i numeri hanno cancellato ogni dubbio e confermato che Joe Biden è il nuovo presidente degli Stati Uniti, il dibattito politico si è focalizzato sulle conseguenze della sconfitta di Donald Trump. E sull’impatto di quel voto sui populismi di destra del mondo occidentale, raggruppando in un unico insieme tutti i partiti e i movimenti populisti che hanno caratterizzato la politica europea nell’ultimo decennio.
Le istanze raccolte da questi partiti sono certamente assimilabili in alcuni pilastri fondamentali – conflitto elite-popolo, malcontento per l’aumento della disuguaglianza e dell’immigrazione, declino della classe media – ma il ruolo che hanno avuto nelle dinamiche nazionali dei singoli Stati non è uniforme e non favorisce generalizzazioni: soprattutto, come fa notare il giornalista francese Bernard Guetta, «mentre Trump è andato alla Casa Bianca, né il Front National in Francia, né Vox in Spagna, AfD in Germania o i movimenti di estrema destra scandinavi si sono imposti con la stessa forza. Ha avuto ottimi risultati la Lega in Italia, ma anche loro senza l’appoggio di un altro grande partito non sarebbero andati al governo».
Democrazie mature
È un discorso che riguarda anche i sistemi elettorali: nel 2017 Le Pen aveva avuto circa il 21 per cento dei voti al primo turno, prima di essere doppiata da Emmanuel Macron al secondo (66 per cento di En Marche, 33 per Front National); allo stesso modo nel 2018, in Italia, la coalizione di centrodestra ha ottenuto la maggioranza relativa, ma con un peso significativo di Forza Italia, e comunque la Lega non è stato il partito più votato – finendo alle spalle del Movimento Cinque Stelle. Solo nel Regno Unito c’è stata un’affermazione vera e propria del fronte populista con la Brexit, e quella stagione sembra essersi chiusa piuttosto in fretta.
Ma la vera differenza, spiega Guetta, è che «la democrazia europea è più forte di quella americana, così come le identità di alcune famiglie politiche sono più chiare, nette, quindi al riparo da alcuni estremismi che infatti hanno difficoltà a raggiungere le cariche presidenziali. Negli Stati Uniti è più facile che l’elettorato, nella singola tornata, scivoli più da una parte o dall’altra, a causa anche dell’alto tasso di astensionismo (non a questo giro, in particolare, ndr): quindi per una nuova offerta politica, in senso lato, è più facile avere grande successo negli States che in Europa».
Non c’è causa-effetto
Differenze che minano il valore di un nesso causa-effetto tra quel che accade al di là dell’Atlantico e quel che avviene nella politica europea: non c’è un meccanismo automatico per cui un cambiamento nel potere in America dovrebbe determinarne un analogo nel Vecchio Continente.
Donald Trump è sceso in campo nel 2015, annunciando la sua partecipazione alle primarie del Partito Repubblicano: c’è una storica copertina del Time di agosto a testimoniarlo, con il suo volto in primo piano e la chioma arancione che copre il nome della testata. «A quel tempo – dice a Linkiesta Gian Paolo Accardo, direttore di VoxEurop – una parte dell’Europa conosceva già i populismi con Viktor Orban e Jarosław Kaczyński. Ma i riferimenti all’America di Trump nel discorso, nella narrazione, negli interventi dei leader populisti di certi Paesi sono sempre stati piuttosto rari. È lampante nel caso della Francia, con Marine Le Pen che quasi mai ha fatto riferimento al presidente americano».
La prima ondata populista recente è quella che si impone alle elezioni europee del 2014, evidenziando una diffusione di questi movimenti su tutto il territorio europeo: se a livello nazionale non si sono mai imposti del tutto, i partiti populisti hanno avuto gioco facile a muovere l’elettorato euroscettico alle europee.
«Ma all’unica tornata successiva all’elezione di Trump, quella del 2019, le forze populiste sono state contenute e non sono cresciute», dice Accardo. Anzi nel 2019 i partiti filoeuropei, pur nella loro diversità, hanno ottenuto circa i due terzi dei seggi del nuovo Parlamento europeo.
Se l’elezione di Trump non ha avuto una correlazione diretta nell’alimentare i populismi europei, allo stesso modo questa sconfitta elettorale non è necessariamente l’inizio della fine per quei movimenti.
«Dal secondo Dopoguerra c’è sempre stata una sorta di ricaduta in Europa di ciò che accadeva negli Stati Uniti, sia sociale sia politica, si veda ad esempio il cambio di approccio di Tony Blair tra l’amministrazione Clinton e quella Bush. Ma è pur vero che non si viene a creare un circuito di necessità: spesso sono costruzioni mediatiche a creare questi collegamenti. E quest’elezione americana non cambierà il destino dell’Europa», spiega a Linkiesta la professoressa Francesca Russo, storica delle dottrine politiche.
Una semplificazione diffusa è la narrazione di un’Europa vista come un monolite: «Occorre fare dei distinguo – dice la professoressa Russo – tra i singoli Stati europei, si pensi alla distanza politica e di interessi tra Occidente e Oriente, o all’attuale situazione del Regno Unito con la Brexit: l’Europa è così eterogenea e variegata che generalizzare crea inevitabilmente delle distorsioni nel racconto, e non può esserci qualcosa che vale per tutti allo stesso modo. Per cui farei attenzione a considerare l’Europa come un unicum».
I nazionalismi non dialogano
Tra nazionalismi, quindi tra posizioni politiche che raccolgono le istanze di un determinato territorio e del suo popolo e ne riflettono gli interessi, è difficile immaginare una connessione così immediata e diretta. È difficile pensare che possano costituire un fronte comune – non nella retorica, ma nei fatti. Ci aveva provato l’ex stratega di Trump Steve Bannon, con l’ambizione di un’alleanza paneuropea tra partiti nazionalisti di estrema destra, ma non ha riscosso grande successo.
«C’è una contraddizione di principio nel pensare i nazionalismi uniti o addirittura alleati in un fronte comune», spiega a Linkiesta Roberto Esposito, docente di filosofia teoretica alla Normale di Pisa, che considera il voto di protesta, diffuso in Europa negli ultimi anni, come una reazione alla crisi economica e sociale della classe media europea.
«I nazionalismi, in tutta la storia moderna, si sono combattuti tra loro. La prima guerra mondiale è stato l’esito di questa lotta tra vari nazionalismi contrapposti. Il richiamo a uno specifico territorio e a una specifica popolazione, intesa anche in base alle sue caratteristiche etnico-razziali, è una caratteristica fondamentale dei vari nazionalismi. Ma non per forza declinata in toni aggressivi. Per esempio il nazionalismo americano, nel corso della sua storia, è stato piuttosto isolazionismo, anche nei confronti dell’Europa», aggiunge Esposito.
Cosa viene dopo le elezioni americane?
Più che valutare possibili impatti concatenati sui populismi europei della sconfitta di Trump, può essere utile provare a capire cosa ne sarà del trumpismo dopo novembre 2020, e cosa si profila all’orizzonte per altri partiti nazionalisti.
Bernard Guetta dice che «i populismi, con le loro differenze, dovrebbero sopravvivere alla sconfitta di Trump: le motivazioni che hanno portato alla vittoria nel 2016 esistono ancora, così come la forza dei messaggi che hanno guidato Matteo Salvini, Marine Le Pen, Frauke Petry e altri populisti europei».
Sarebbe assurdo, infatti, decretare l’uscita di scena del trumpismo dopo un’elezione in cui il presidente uscente ha mobilitato in massa la sua base, ottenendo 70 milioni di voti. Per Geoffrey Kabaservice, direttore del Niskanen Center, think tank di centrodestra americano, è molto probabile infatti che il Partito Repubblicano scelga di puntare ancora su Trump, se ne avesse l’opportunità: «È tutto incredibilmente nelle sue mani, se decidesse di correre nuovamente nel 2024, a oggi è difficile dire chi nel partito può essere un candidato migliore di lui».
La sconfitta elettorale di Trump potrebbe essere stato almeno un campanello d’allarme, una lezione da imparare, per il Partito Repubblicano e per i partiti europei più affini. «Un’idea è che questo movimento non può essere solo opposizione e ostruzionismo se vuole avere successo: paradossalmente Trump è stato un pessimo paladino del trumpismo, non ha realizzato le infrastrutture che prometteva, non ha salvato la manifattura, non ha salvato l’industria del carbone. E non ha fermato il declino americano a livello mondiale. Il partito adesso rappresenta la classe media, la working class. E lo stesso vale per altri partiti nazionalisti occidentali. Un candidato-tipo di un partito conservatore nazionalista-populista giocherà indubbiamente sui timori della classe lavoratrice».
Allora ecco che la perdita di importanza del ceto medio, l’aumento delle disuguaglianze e della povertà dei lavoratori ha aiutato i populisti ad aggregare un consenso che prima era orientato verso sinistra. Per questo è probabile che la prima conseguenza di questa elezione sia tutta interna, da giocarsi nella politica americana. Lo spiega ancora Kabaservice: «Le prospettive del movimento conservatore nazional-populista dipenderanno, più di ogni altra cosa, dai risultati Democratici nei prossimi quattro anni. Se i Democratici non riescono ad affrontare la difficile situazione economica della classe operaia, se consentono l’immigrazione non autorizzata, o se con il ceto medio complessivamente perderà rilevanza, allora la bandiera del Trumpismo potrebbe nuovamente sventolare sulla Casa Bianca».