Valuta volatileIl valore oscillante del Bitcoin e la sua (im)possibile regolamentazione

A inizio anno la criptovaluta più famosa al mondo ha stabilito il record a 33mila euro per unità ma solo cinque giorni dopo ha perso il 16 per cento. A differenza di tutti i beni che ogni giorno acquistiamo e vendiamo, la sua oscillazione non dipende da domanda e offerta. Anche per questo non potrà mai esser considerata una vera moneta

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Se pensate di aver avuto un gennaio complicato, tra zone rosse, arancioni e gialle, è perché probabilmente non avete Bitcoin in portafoglio. In questo caso il vostro inizio 2021 sarebbe stato almeno stressante, per non dire di peggio. La criptovaluta più famosa al mondo ha infatti inizialmente vissuto la migliore partenza d’anno dal 2012, stabilendo il record a 33mila euro per Bitcoin, ma solo cinque giorni dopo aveva già perso il 16 per cento (valore che ha mantenuto nel resto del mese, a esclusione di una fiammata che lo ha per poco tempo riportato a 32mila, spenta in pochi giorni).

Una volatilità che divide gli esperti e che paradossalmente sembra dar ragione sia a chi ritiene che Bitcoin sia un asset di crescente importanza e affidabilità, sia a chi lo guarda come una semplice bolla speculativa pronta a sgonfiarsi.

E in effetti della bolla ha la caratteristica principale: il valore di un Bitcoin è cresciuto del 900 per cento dal 2018, tanto da far impallidire tutte le bolle speculative degli ultimi 50 anni, come ha ricordato Bloomberg: da quella dell’oro sul finire degli anni Settanta a quella di internet del Duemila, fino anche ai prezzi delle case americane che hanno portato allo scoppio della Grande Recessione. Anche l’enorme crescita di valore delle azioni dei Faang – Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google – a partire dal 2019 non è comparabile con quanto accaduto negli ultimi due anni al re delle criptovalute.

Una “moneta” instabile è una moneta?
Neanche gli entusiasti di Bitcoin negano la natura errante della creatura di Satoshi Nakamoto, pseudonimo del suo inventore. Il Bitcoin, a differenza di tutti i beni che ogni giorno acquistiamo e vendiamo, ha infatti un’offerta limitata a priori a 21 milioni di monete minate. E quindi il valore di ognuno di esse dipende solo dalla domanda e non raggiunge un equilibrio – come nella maggior parte degli altri mercati – quando questa si incrocia con l’offerta.

Prendiamo ad esempio il grano: il suo prezzo è determinato da quanti vogliono acquistarlo, magari per produrne farina, e da quanto grano c’è in circolazione, che dipende molto da come è andata la raccolta. Per il Bitcoin è differente, non cambiando il numero di monete in circolazione. A far salire o scendere il prezzo sono solo le aspettative di chi li scambia: se penso che il valore crescerà, compro; se penso il contrario, vendo. Ma – dicono i difensori del Bitcoin – proprio perché l’offerta è limitata il valore tenderà a crescere nel tempo, al di là delle fluttuazioni temporanee, perché sarà un bene sempre più scarso.

Christian Miccoli, ex banchiere con esperienza nel settore fintech (ha gestito Ing Direct e CheBanca!) e ora co-fondatore del wallet digitale di Bitcoin Conio. spiega che «negli ultimi anni le banche e i fondi stanno iniziando a investire nella criptovaluta. Tutto è iniziato con Fidelity (uno dei più grandi gestore di fondi al mondo, ndr) che ha creato una propria divisione per fornire alle banche i servizi necessari ai loro clienti per acquistare e vendere Bitcoin. Grazie al suo enorme marchio ha aperto la strada agli altri» e, verrebbe da dire, ha permesso l’ingresso del salotto buono della finanza nel mercato del Bitcoin.

Con una conseguenza, secondo Miccoli: «I gruppi finanziari sono quelli che danno stabilità perché puntano ad accrescere la loro quota nel medio termine e non a mosse speculative. Potrebbero essere loro dunque ad alleviare la costante volatilità che contraddistingue la criptovaluta». Oltre che permettere un’ulteriore crescita di valore: la banca di investimento JP Morgan ha previsto che Bitcoin possa raggiungere perfino i 120mila euro di valore nel lungo termine (quattro volte tanto rispetto a oggi), pur chiarendo in un report che la criptovaluta non può essere considerato un investimento rifugio in tempi di incertezza.

Ma chi non crede nel futuro della criptovaluta ritiene che il saliscendi degli ultimi giorni sia invece la dimostrazione della debolezza di Bitcoin. A parlarne a Linkiesta è Luca Fantacci, direttore del Mints, l’osservatorio dell’innovazione delle valute dell’università Bocconi e co-autore del libro “Per un pugno di Bitcoin. Rischi e opportunità delle monete virtuali”.

«La volatilità degli ultimi giorni – dice Fantacci – è la conferma che si tratta di un asset che soffre di una instabilità intrinseca, legata al fatto che l’offerta è fissata mentre la domanda oscilla in maniera erratica secondo le aspettative».

E dunque Bitcoin non potrà mai essere considerato una vera e propria moneta (come ha anche affermato il capo economista di Ubs), che deve essere invece un buon strumento di pagamento. Se il valore oscilla del 16 per cento in una settimana chi la utilizzerà mai per fare la spesa? Secondo Fantacci, non ha nemmeno senso paragonarlo all’oro, come fanno in molti: «L’affinità è che entrambi – oro e Bitcoin – sono beni scarsi, ma il primo ha dimostrato in millenni di avere un valore intrinseco. È un metallo incorruttibile, e il suo valore è dato dalla sua presenza mistica, dal fatto che si prova piacere a tenerlo in mano. Con il Bitcoin, mi dispiace, ma non è così». E per di più l’oro è anche utilizzato nella gioielleria e nell’industria.

C’erano una volta i nerd
Se il valore si stabilizzerà lo vedremo nei prossimi anni. Intanto però possiamo essere certi di un’altra conseguenza dell’ingresso dei grandi gruppi finanziari nel mercato delle criptovalute: negli ultimi anni è diventato molto più semplice acquistare e vendere Bitcoin, anche direttamente dal proprio smartphone. E questo ha portato a un cambiamento del profilo degli investitori.

Al principio erano soprattutto nerd e informatici a interessarsene, affascinati dal potenziale rivoluzionario della blockchain e dall’animo libertario di una valuta non controllata dalle banche centrali e dai grandi gruppi finanziari. E proprio molti di loro si ritrovano oggi in mano profitti stratosferici, tanto che, secondo Miccoli, si sono trasformati negli stessi pesci grossi – quelli che determinano i profitti e le perdite dei pesci più piccoli – che in principio volevano distruggere.

Di informatici arricchiti inconsapevolmente con i Bitcoin racconta anche la storia di Stefan Thomas, raccolta dal New York Times: è un programmatore tedesco che vive a San Francisco, proprietario di un piccolo hard disk che contiene la chiave per entrare nel suo wallet in cui sono salvati 7.002 Bitcoin, con cui era stato pagato per un lavoro più di dieci anni fa. Ora che il loro valore ha raggiunto 240 milioni di dollari il problema è che si è dimenticato la password per accedere all’hard disk, e dopo dieci tentativi si bloccherà definitivamente l’accesso. A Stefan Thomas ne sono rimasti solo due.

Poi dopo i nerd sono arrivati altri utenti, con livelli diversi di competenza tecnologica. E con loro gli investimenti dei fondi di venture capital, che tra il 2014 e il 2015 hanno messo le basi dello sviluppo di Bitcoin con investimenti miliardari. E così arriviamo fino ai giorni nostri, con transazioni più rapide e facili, 800mila Bitcoin in pancia di aziende quotate in borsa e il recente ingresso di PayPal nel mercato delle transazioni di criptovalute. Una cavalcata vincente, con la rilevante ma transitoria eccezione dell’euforia e successivo panico per la perdita dell’80 per cento del valore nel 2018.

La regolamentazione fa paura (a qualcuno)
Un successo che sta facendo impensierire anche i regolatori delle banche centrali. Christine Lagarde solo qualche settimana fa ha affermato che «occorre concordare a livello globale una regolamentazione delle criptovalute», tra cui Bitcoin, che sarebbe «un asset altamente speculativo» e con il quale «l’utilizzo per attività di riciclaggio di denaro è considerevole».

Un punto su cui è d’accordo Luca Fantacci: «Servono forti restrizioni alla possibilità per le banche e gli operatori finanziari di investire in criptovalute, per evitare di rendere enormemente instabile l’intero mercato». Anche perché se è vero che la crescita di Bitcoin, come già ricordato, è molto superiore alle bolle speculative del passato, è anche caratterizzata – per adesso – da un minor livello di interconnessione con il resto del mercato finanziario. Ma se così non fosse più, e banche e fondi si riempissero la pancia di Bitcoin come avevano fatto con i mutui subprime nel 2007, le preoccupazioni di Fantacci potrebbero realizzarsi.

Un’attenzione dei regolatori europei che però spaventa chi mira a essere protagonista di questo mercato, come Conio: «Ritengo che la Bce abbia il timore che Bitcoin surclassi l’Euro» ci dice Miccoli. «Oggi la moneta europea è sotto pressione per le politiche espansive, mentre le criptovalute sono alla ribalta. Ma la loro crescita potrebbe avere un impatto virtuoso anche sulle banche centrali: la presenza di valute private forti obbliga i regolatori a una maggiore disciplina per preservare il valore delle monete nazionali». Una disciplina che potrebbe evitare, secondo Miccoli, la spirale inflazionistica – per ora in realtà non all’orizzonte – che si rischierebbe se si continuassero a soddisfare le richieste di spesa della classe politica.

E c’è anche un’altra ragione per cui, secondo i sostenitori di Bitcoin, le banche centrali non dovrebbero affossare il mercato delle valute private con una regolamentazione troppo stringente. Se la Bce frenasse in modo troppo deciso lo sviluppo degli operatori dei sistemi di pagamento in Europa, il rischio sarebbe una nuova colonizzazione tecnologica da parte di Stati Uniti e Cina.

Per funzionare le monete digitali – private come Bitcoin ma anche pubbliche come l’annunciato Euro digitale della Bce – hanno bisogno di sistemi informatici su cui essere scambiate e di wallet digitali in cui essere depositate. E se nei prossimi anni non venisse lasciato svilupparsi un ecosistema privato di operatori europei abituati a lavorare su token e blockchain, difficilmente potremmo cavalcare questo nuovo capitolo della rivoluzione tecnologica.

Questo d’altronde è un timore che condivide anche Fantacci: «Le banche centrali sanno che il loro mestiere non è produrre e gestire la moneta elettronica, ruoli appannaggio degli operatori privati, ed è auspicabile che continuino a essere proprio i privati a gestire le transazioni e i wallet digitali dei clienti».

Anche perché, da che mondo è mondo, lo Stato si occupa dei beni pubblici – come la moneta – mentre lascia ai privati la gestione dei servizi privati, quali sono i servizi di pagamento. A Bitcoin, e al suo ecosistema in evoluzione fatto di nuovi e vecchi operatori, la decisione se adeguarsi al vecchio corso o rilanciare la sfida al potere finanziario di Satoshi Nakamoto.