Esco, vado a cantare. L’introduzione orchestrale mi serve per chiudere a chiave la porta. Sento il rumore delle chiavi nella toppa, nella meccanica a tamburi della ritmica, sento questo rumore nelle introduzioni, nelle ouverture, nei preludi, anche nelle sinfoniette d’apertura. Ah, già, ecco, l’apertura, credevo di fare lo spiritoso, invece è tutto noto, non è una mia impressione, i pezzi d’apertura funzionano come le porte, tutto è noto al mondo, tutto già si sa, basta stare attenti a quel che si dice senza saperlo, poi si sa.
L’introduzione ossia: quella è la porta. Alle volte, guarda un po’, le cose si dicono senza nemmeno dirle. Metto in tasca le chiavi, vado, esco, canto. E se le lanciassi, le chiavi? Posso farlo, anzi devo, lo voglio, che liberazione buttare la chiave nello stagno della canzone: la superficie smeraldina, fiori galleggianti e foglie, sulle foglie ranocchie. Tinche e carpe pesanti, pensanti, sul fondo.
Monet dipingeva canzoni, ne ha composte sulle duecentocinquanta, coi ponti e tutto, piene di ritornelli a chiazze, a ciuffi, a salici, a sbocci, a petali sia timidi sia a bocca aperta, solisti e corali, voci bianche, gialline, fucsia e ciclamino, voci di tutti i colori, voci a galla. Chi canta ha solo la testa fuori dall’acqua, il resto del corpo è naufragato: per questo canta, perché non può far altro.
Ma perché mi pare, guardando una canzone di Monet, che l’acqua, l’erba, i fiori, le fronde, la soave aria stessa, tutto, perché mi pare che tutto questo non appaia ma stia sparendo? Non lo so. Oppure sì: è la bellezza, bellezza. La bellezza appare sparente. Anche nella canzone, nella mia canzone, è così, quel che appare se ne va, è ovvio, se ne va, appunto, in canzone. È così semplice, adesso che ci penso. Ma perché non l’ho mai pensato prima? Anche questo è semplice: perché prima non penso. Cosa stavo dicendo? Cosa ti dico, cantando?
Ti dico, dico a me: butta queste chiavi di lettura, non ti servono, non farmi il presuntuoso, chiavi in mano. Tutte le chiavi, è ovvio, noto e risaputo, sono di lettura, a cominciare da quelle delle porte, chiavi che leggono la maschiatura. La maschiatura: mi piacciono queste parole che imparai nell’infanzia (un giorno rivelerò un segreto). Questa parola la sentii pronunciare da addetti al lavoro intorno a serrature, e chi se la scorda.
Potrei fare una tirata qui sulle chiavi e sulle serrature: le chiavi che, per leggere la serratura, sono anch’esse cifrate, così si dice, cifrate. Cioè, ti rendi conto? È in cifra la chiave di lettura, va letta anch’essa, e anche quel che essa legge è in cifra. Stiamo parlando, quindi, di meccanica non di interpretazione, stiamo parlando di movimento dei corpi.
Decifrare è quindi una movenza, è, forse, ballare? Ecco perché mi piace fare ballare, metto in moto meccanismi, marchingegni, decrittatrici, decrittatori, e scalpiccio. Canto per una donna, sempre la stessa. Dirò, un giorno, cosa significa questo. Dove sta il significato? Il mio significato sta all’inizio non alla fine, e la canzone mia è atto finale. Quale atto? L’annullamento del significato, è ovvio.
Quando dico significato intendo il “già significato”, partecipante e partecipato participio passato e ripassato, che nella canzone non mia appare al suo ultimo grado, quindi degrado, di condivisione e di consenso (non che senso, tu che ascolti, chiedi, non che senso ha ma che consenso, subito offrendo il tuo, che è il tuo di tutti, senza sentirti nemmeno un po’ fottuto).
Cos’è, mi offri la testa, il tuo pensiero? Scrivere è esecuzione, anche questo è ovvio oltre che capitale. Non accetto scambi, né didattici né didascalici. Non chiediamo mica al mare cosa significhi. Che potrebbe sommergerci, questo significa, ma se lo tiene per sé. Noi siamo soltanto il nostro accidente, non il suo.
Sia dal principio sia come principio, tiene in sé tutta quell’acqua, il mare, noi conosciamo quello che viene dopo, lo sciabordio, la burrasca, anche l’onda alta come una diga che si muove, conosciamo l’erosione e l’invasione delle coste, i versetti delle frange d’onda, leggiamo un intero romanzo possente o un poema istantaneo in un cavallone rampante e bianco che si abbatte con foga romantica e criniera esplosiva contro una scogliera: tutte cose che per il mare sono inezie marginali, senza significato.
Sulle spiaggette, i fessacchiotti passano a raccattare conclusioni, conchiglie, pietre pomice, sugheri, si applicano a rivoltare trasparenti meduse con un saggistico bastone, come se la passeggiata lungomare fosse avventura e raggiungimento di chissà quali arrivi lontani, toccando la sponda venendo da terra. Insomma, esco, chiudo, lancio la chiave, vado, canto, inizio, come un quadro di Monet, a sparire.
Sempre si può tornare a rimirarlo, sempre e continuamente sparirà Monet. È così che anch’io Monetizzo, anche così. Ah, le famose ninfee che egli fa apparire facendole continuamente sparire. È noto (è noto a me) che apprese questa tecnica, che non è una tecnica, diciamo questa meccanica, che non è una meccanica, diciamo questo ballo, questo ballo dei pennelli è noto che lo apprese studiando quell’altra ninfea che è il sorriso di Monna Lisa, quel sorriso che scompare.
Infatti, a ben guardare, appare che scompare, e scompare perché tu lo guardi, quel sorriso, sempre scompare alla vista (la vista sua di lei) del turista osservatore, il quale vuole credere che ella gli sorrida per mantenere vivo il suo (dell’osservatore) morto, disfatto, degradato consenso. Invece no, ella glielo toglie. Non sorride, ella, ella desorride.
Scendo nei fondi bassi dell’ascolto, nei vicoli che somigliano alle tormentate circonvoluzioni dell’orecchio interno. Porto su un vassoio leggero in palmo di mano, all’altezza del mio orecchio, come pizze da strada, il mio canto, la mia merce. Io sono merce, e merce è chi mi ascolta. Il suono della merce da una parte, dall’altra l’attenzione di chi ascolta, e anch’essa ha un costo. Pago anch’io, sonante, l’attenzione, togliendo voce a me per darla ai bisognosi di canzone. Però (è ninfea, è sorriso) sparisce appena emessa, la mia voce.
Insomma, mi addentro in questi bassi fondi. Mi offro a chi mi ascolta, e chi mi ascolta pure si offre, porge l’orecchio, quasi una mano aperta da elemosina, che però è anche un artiglio. C’è da fare subito una distinzione, la netta distinzione tra orecchio maschile e orecchio femminile.
Nei maschi la canzone risveglia un passato pieno di vergognose reticenze, un cameratismo di dolcezze mascherate da impegnative colluttazioni con l’aria fritta del parlar di canzoni, che è come portare i sandali coi calzini. Le canzoni o son cose da ragazzi o son cose da nostalgici, nostalgici di infantilismo, di quell’epoca in cui tutte le presunzioni sentimentali sono perdonate perché frutto di evidente incompetenza.
Alle donne basta uno scuotimento di capelli e la musica è già sconfitta. Hanno una tale superiorità naturale sulla musica, le donne, che l’ascoltano come porgendo il piede al commesso del negozio di scarpe. Soggiogato, già è tanto che non venga, con una pedata al petto, steso al suolo.
I maschi parlano di canzoni da repressi nei sentimenti, si innamorano dei cantanti, temono le cantanti, alimentano un affamato vittimismo, affidano alle canzoni la loro salvezza da non si sa che, poi si sa: dal non affrontare qualcosa di meno galleggiante, di meno schiumoso della musica, che è fatta di bolle d’aria, come quelle emesse delle alghe lontane, portate, patetiche come chiome lisce o ricce di annegate, a riva dal ritmo del mare.
I maschi gradiscono l’annegamento di donne innamorate. Il mare è pieno di annegamenti quanto le canzoni sono piene di mare. Per le donne l’ammirazione è dominio. Anche dominio sul mare, le donne fanno poche smancerie davanti al mare, lo fronteggiano. Per i maschi l’ammirazione è servilismo, sottomissione infantile alla tirannia di un’infanzia che non seppero sedurre e che li rese impotenti alla seduzione dell’adolescenza, della giovinezza, della maturità, della vecchiaia (e la seduzione è una, è questa: sedurre la propria vita con le proprie memorie). Adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia, tutte parole magnificamente femminili. (Mi fermo perché continua…)