Il nuovo gruppo cosiddetto europeista al Senato della Repubblica (Europeisti, Maie, Centro Democratico) è il punto di congiunzione tra l’uno-vale-uno grillino e l’idea puramente demografica, cioè aritmetica, della democrazia parlamentare che ha fatto dei partiti della Prima Repubblica lugubri anagrafi di anime morte, condannandoli alla dissoluzione ben prima che Tonino e i suoi compari decidessero di giustiziarli nell’ordalia di Tangentopoli.
Visto che contano solo i numeri, se non ci stanno Emma Bonino e Matteo Richetti a fare gli europeisti di governo al Senato si reclutano un po’ di ex grillini allo stato brado, che fino a pochi mesi fa deliravano sul referendum per l’uscita dall’euro, e li si battezza «europeisti», perché come una persona vale un’altra, così anche le parole e le idee sono intercambiabili. Tutte uguali e ugualmente irrilevanti.
Sarebbe però sbagliato qualificare come democristiana l’operazione Tabacci-Mastella (prima uniti, ora litigati, domani chissà) a sostegno del Conte-bis, come è certo insensato definire socialista il voto in extremis di fiducia al Conte-bis, dopo la certificazione del Var, del senatore Nencini, accoppiato al senatore Ciampolillo.
Sono operazioni di puro affarismo istituzionale, non di vita parlamentare, e non a caso nascono in un Parlamento che ha collaborato, con azioni e omissioni, alla mutilazione delle camere, squadristicamente presentata dai promotori come taglio delle poltrone. La Democrazia cristiana e il partito socialista italiano sono state tante cose, ma non esclusivamente (o innanzitutto) questo. E la partitocrazia italiana è stato un regime politico disfunzionale e alla fine entropico, ma non solo un covo di biscazzieri e di compravenditori di voti.
L’epilogo del Conte-bis e il travaglio per il Conte-ter è quindi nel segno della più perfetta continuità culturale di una legislatura che ha legato indissolubilmente e in modo solo apparentemente paradossale il tumulto della piazza e l’opacità delle istituzioni, l’oltraggio alla libertà dei parlamentari con l’invocazione poliziesca del vincolo di mandato, e l’istituzionalizzazione della regola trasformistica e del voto di scambio come modello di leadership e di governo.
È quindi del tutto coerente che si sia partiti con un avvocato del popolo che si paragonava a Trump e avrebbe dovuto realizzare il Di Battista-pensiero e che, dopo svariati travestimenti, si sia arrivati allo stesso avvocato pronto a paragonarsi (e a essere paragonato!) a una sorta di De Gasperi, mettendosi nel contempo a trafficare con tutti i possibili caporali disponibili a reclutare nelle camere i voti dispersi, da intestare a quell’Europa, che il partito di riferimento del presidente del Consiglio, nel frattempo diventato fortissimo punto di riferimento del mondo progressista, voleva rottamare e a cui ora si aggrappa come a un provvidenziale salvagente. Tutto di un fiato, tutto indefettibilmente «nel nome del popolo».
A differenza di quanto si legge in analisi conformistiche e culturalmente sciatte, non stiamo assistendo al ritorno della politica, ma a un’altra manifestazione della fenomenologia contiana, a un’altra pagina del degrado di un’idea del potere post-politica e post-democratica: al passaggio dalla “democrazia di relazione” alla “democrazia di transazione”. E non è affatto un caso che tutte le pagine di questo libro della vergogna, dalla prima alla (speriamo prossima) ultima, siano intestate al Presidente Conte e lo vedano protagonista.