Articolo scritto in occasione dei 100 anni della rivoluzione bolscevica del novembre 1917. Traduzione di Guido De Franceschi.
Il centenario che commemoriamo questo mese, il solenne anniversario della rivoluzione bolscevica, è il centenario di un’assurdità logica e delle sue conseguenze. La presa del potere in Russia da parte dei bolscevichi è stata un caso, ma è stata interpretata come un destino. Quello che è avvenuto non era stato predetto proprio da nessuno, ma il suo prestigio si è basato sulla convinzione secondo cui si erano compiute le ben note predizioni scientifiche di Karl Marx. L’assurdità di queste contraddizioni costituiva la mistica bolscevica. E la cosa più assurda di tutte è che l’attrattiva di questa mistica si è rivelata straordinariamente grande.
La rivoluzione che nei primi mesi di quello stesso anno, nel marzo 1917, aveva rovesciato lo zar era stata del tutto diversa. In Russia chiunque, fatta eccezione per lo zar medesimo e per un piccolo numero di persone della sua cerchia, sapeva che lo zarismo, come sistema sociale, era estremamente traballante ed era destinato a crollare. Tutti riconoscevano la forza e la popolarità dei principali partiti di opposizione, i socialdemocratici menscevichi e i socialisti rivoluzionari delle zone rurali. Quindi tutti, tranne lo zar e i suoi, prevedevano la rivoluzione di marzo. Puntualmente la rivoluzione ci fu e nessuno ne fu sorpreso. Lo zar abdicò. I grandi partiti di opposizione presero il potere e iniziarono il processo che, come tutti si aspettavano, avrebbe cercato di spingere la Russia in una direzione occidentale, secolare, parlamentare e vagamente liberale.
Nessuno si aspettava invece che una fazione dittatoriale della sinistra rivoluzionaria fosse in procinto di spodestare i partiti democratici e di istituire un tipo di dispotismo inedito e straordinariamente spaventoso. Lo stesso Lenin non si aspettava un simile sviluppo. Ancora nell’estate del 1917 Lenin non si immaginava che i bolscevichi avrebbero potuto impadronirsi del potere. Non pensava neppure che fosse desiderabile, né lo pensavano i suoi compagni. Tuttavia, le strade erano in subbuglio e Lenin iniziò a sospettare di poter manovrare le folle a suo vantaggio.
Nessuno fra i suoi compagni bolscevichi era d’accordo con lui. Lui incalzò i compagni. E, a novembre, mobilitò i compagni e una folla abbastanza grande per entrare in azione. E riuscì nel suo intento. Tutti quelli che parteciparono videro che, con tutta evidenza, senza Lenin la presa del potere non sarebbe mai stata possibile. Se Lenin non fosse riuscito a tornare in Russia dalla Svizzera, se fosse rimasto ferito in un incidente stradale, se si fosse ammalato di qualcosa di grave, come sarebbe poi accaduto di lì a pochi anni, non ci sarebbe mai stata la presa del potere da parte dei bolscevichi, non sarebbe mai stata creata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e non sarebbe mai emerso un movimento mondiale obbediente agli ordini sovietici.
Ciò nonostante, i bolscevichi se ne uscirono istantaneamente con un’interpretazione degli eventi che chiamava in causa l’ascesa del proletariato industriale (benché, com’è ovvio, il proletariato industriale fosse in sostanza un fenomeno dell’Europa occidentale, non molto presente in Russia) e il destino storico del proletariato di spodestare la classe capitalista e di lanciarsi verso il futuro.
In questa interpretazione, quello che era accaduto nel novembre 1917 a San Pietroburgo appariva quindi come un fenomeno doppio: lo si riteneva espressione delle profonde e inarrestabili forze storiche, come le aveva definite Marx mezzo secolo prima, e lo si riteneva opera di un titano solitario e insostituibile, lo stesso Lenin, che incarnava le forze storiche.
Quello che era avvenuto era inevitabile, ma necessitava tuttavia della guida di una figura straordinaria. Quello che era avvenuto era un colpo di Stato, che pretendeva di essere una rivoluzione sociale. E la società che emerse da quegli avvenimenti, la società comunista dell’Unione Sovietica, esibiva la stessa doppia caratteristica. La società sotto il governo comunista era un tipo di democrazia che, per il fatto di essere più democratica delle normali democrazie, aveva preso la forma di una dittatura.
La società comunista era il governo dei molti, cosa che richiedeva il pugno di ferro di un solo capo. Anche le politiche della nuova società seguivano la stessa doppia formula. La società comunista era la più gentile, la più generosa e la più umanitaria tra tutte le società nella storia del mondo e sterminò intere classi sociali. Era una società che venerava con devozione i lavoratori e nei suoi campi di lavoro instituì il lavoro schiavile di massa.
Che cos’era, quindi, la mistica bolscevica? Era la mistica della transustanziazione. Era il mistero di una cosa che poteva trasformarsi in qualcosa d’altro – l’avvenimento casuale e locale di San Pietroburgo che si era trasformato in un avvenimento inevitabile su scala mondiale; l’avvenimento imprevisto che era divenuto il compimento di una predizione scientifica; i molti che si erano trasformati nell’uno; il salto verso il futuro che aveva nuovamente istituito il modello di lavoro in uso al tempo dei faraoni. Il bolscevismo era la scienza sociale che, attraverso i meccanismi di una dottrina incomprensibile chiamata materialismo dialettico, era diventata mistica. Diventare bolscevichi era quindi attraente per molti motivi e per i motivi opposti. Il bolscevismo offriva l’attrattiva della democrazia, che era anche l’attrattiva del culto del capo; l’attrattiva della ribellione, che era anche l’attrattiva dell’obbedienza; l’attrattiva della generosità, che era anche l’attrattiva della crudeltà; l’attrattiva dell’umiltà, che era anche l’attrattiva della superiorità.
L’attrattiva del bolscevismo era un culto della ragione che era, allo stesso tempo, una pazzia. E, per un considerevole tratto del Ventesimo secolo, il potere di questa attrattiva si rivelò il più forte che si fosse mai visto nel mondo. Nel giro di suppergiù trent’anni, il comunismo poteva contare sulla lealtà, o quantomeno sull’obbedienza, di qualcosa come un terzo della popolazione e metà della superficie del mondo, con entusiasti sostenitori in ogni Paese della Terra. E aveva ragione di ritenersi prossimo a un trionfo universale. Nemmeno l’Islam del Settimo e dell’Ottavo secolo aveva ottenuto successi paragonabili.
Naturalmente molti potrebbero affermare che nel corso del Ventesimo secolo, in varie parti del mondo, l’attrattiva del comunismo era molto meno ambigua e non aveva nulla a che fare né con le assurdità logiche della teoria bolscevica né con il culto mistico dell’obbedienza. E, soprattutto, molti potrebbero affermare che, in un Paese dopo l’altro, chi faceva parte del movimento dei lavoratori finì per sostenere il Partito comunista per una questione di solidarietà tra lavoratori e niente di più. I lavoratori desideravano vedere una classe lavoratrice più forte e il comunismo offriva forza. O, quantomeno, un gran numero di persone dicevano questo, e ancora lo dicono.
Ma era vero? In Russia il primo risultato ottenuto dai bolscevichi di Lenin fu quello di aggredire e distruggere i menscevichi (o socialdemocratici), insieme con tutte le altre istituzioni e organizzazioni non comuniste della classe lavoratrice. E questo divenne un obiettivo del comunismo anche in tutti gli altri Paesi. Ovunque nel mondo industrializzato il primo e più duraturo risultato politico ottenuto dal Partito comunista fu quello di creare divisioni nel movimento dei lavoratori. Ovunque esistesse un partito dei lavoratori o un partito socialista, i comunisti lo spaccarono per creare un partito loro. Ovunque ci fosse un movimento sindacale abbastanza forte, i comunisti crearono divisioni anche lì. Ed erano divisioni che tendevano a essere durature. Ovunque queste divisioni indebolirono la classe lavoratrice, invece di rafforzarla. E le divisioni si rivelarono fatali. La Germania degli anni Trenta ne è il principale e più terribile esempio: e la civiltà non si riprese più. Eppure, moltissimi continuavano, e ancora continuano, a pensare al comunismo come a una forza capace di irrobustire la classe lavoratrice. Ed ecco dunque un’altra assurdità.
In altre parti del mondo, nel corso del Ventesimo secolo, moltissime persone avrebbero affermato che il sostegno al comunismo era dovuto a una differente istanza, che era nazionale e anticoloniale, invece che proletaria, cioè il desiderio di allontanarsi dagli imperi occidentali e di trovare una propria strada adatta allo sviluppo nazionale nel contesto del Terzo mondo. Il comunismo, visto sotto questo punto di vista, non era tanto un movimento della classe lavoratrice quanto un movimento di modernizzazione, che aveva l’obiettivo di riscattare i Paesi del Terzo mondo dall’arretratezza culturale e da un’economia premoderna e di accompagnarli nei benefici della civiltà moderna. O comunque in moltissimi avrebbero sostenuto questo.
Ma questa argomentazione è molto più convincente di quella sulla forza della classe lavoratrice? La lotta più lunga e più violenta nella storia del movimento comunista fu quella nell’Asia Orientale – prima in Corea e poi in Vietnam – per distruggere e per sostituire con Repubbliche comuniste i governi che si autodefinivano nazionalisti ed erano appoggiati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. In ogni parte del mondo, le persone che osservavano le lotte nell’Asia Orientale ritenevano nobili gli sforzi comunisti, ne traevano ispirazione e sostenevano più che potevano quelle lotte. E quindi? Qual è stato, alla fine, il risultato?
Nella penisola coreana alla fine degli anni Quaranta gli standard di vita erano a livello africano e in quella che è diventata la metà comunista della penisola sono rimasti spaventosamente bassi. Persino oggi nella Repubblica popolare di Corea ci sono persone che soffrono la fame. La Corea del Sud, invece, ha dimostrato nel corso dei decenni che un Paese estremamente povero del Terzo mondo può, di fatto, tirarsi fuori dalla povertà e raggiungere un notevole grado di ricchezza e può anche creare un sistema politico democratico.
La ricerca dello sviluppo della nazione, si diceva: ma era davvero questa la causa per cui si battevano i comunisti coreani? E le persone che in tutto il mondo preferivano i comunisti coreani al regime sudcoreano appoggiato dagli americani: costoro erano davvero i sostenitori del progresso economico, della liberazione del Terzo mondo e della libertà politica?
L’esempio del Vietnam pone gli stessi quesiti, in maniera diversa. I comunisti in Vietnam ottennero vittorie sia a Nord sia a Sud e ovunque queste loro vittorie sono state una sciagura. Dopo l’espulsione degli imperialisti francesi, come prima cosa, il comunismo nel Vietnam del Nord massacrò la sinistra vietnamita non comunista, costrinse all’esilio un buon 10-15 per cento della popolazione e provocò una carestia. Due decenni dopo i comunisti trionfarono anche nel Vietnam del Sud e ottennero di spingere un milione e mezzo di persone nel Mar Cinese Meridionale, di fondare grandi campi di lavoro e di introdurre la loro catastrofe economica.
È vero che in Vietnam, diversamente da quanto è accaduto in Corea del Nord, i comunisti hanno poi corretto le loro politiche economiche, ma con quali risultati? Hanno introdotto, come in Corea del Sud, un capitalismo di mercato, che però non ha il dinamismo sudcoreano e, non bastasse, non ha neanche l’ombra della democrazia sudcoreana. Però, nonostante questo, durante la seconda metà del Ventesimo secolo, la causa del comunismo vietnamita si è rivelata come quella in assoluto più popolare in tutto il mondo.
L’eredità delle rivoluzione bolscevica del novembre 1917, quindi? Che cos’è? Una catastrofe, naturalmente. Lo sanno tutti, ormai. E l’attrattiva del comunismo? Che cos’era, alla fine, questa attrattiva? Ci si porrà ancora per secoli questa domanda. E sarà un’indagine sulla natura umana.